lunedì 29 aprile 2013

Almost Blue

"Sei la strada tortuosa. Pericolosa. Quella che sale dritta in montagna. Piena di curve e senza alcuna protezione".
Ti respiro e ti inspiro come il fumo della mia sigaretta. Grigie spire di fumo che salgono verso l'alto. Nella loro risalita diventano bianche. Aloni bluastri, come i segni con cui vesto i miei occhi al buio. Cerchi violacei, concentrici e cupi. Ti respiro ancora. Sei il fumo. Ti sento fin dentro i polmoni come spasmi intermittenti e irregolari. Nelle narici, nella bocca. Invadi il mio spazio vitale, ne impregni le pareti come una vecchia carta da parati. Ti inspiro e risali la via del mio respiro fin dentro al mio cervello. Per non abbandonarmi più. Acre e pastoso, t'insinui lentamente dentro la mia gola. Ti trattengo e poi ti respingo. Ti riprendo e vorrei sfuggirti tutte le volte. Sei la mia metamorfosi. Il cambiamento che mi annulla. Senza nessuna regola. E continuo a fumare. E non mi manca l'aria di fronte al mare. Non mi manca l'odore dei fiori di campo. Un'altra boccata del mio grigio preferito. E sento la tua discesa nelle mie braccia. Nelle vene. Negli occhi. Ancora un'altra. E sento la tua densità graffiarmi la gola. E sento che attacchi i miei organi come un'idra dai tentacoli infernali. Io non farò alcuna resistenza. Non voglio combattere. Io cederò sotto il peso del tuo sguardo e ti lascerò perforare il mio cuore. Aspetterò che tu faccia a pezzi tutto. E resterò a guardare brandelli di me, come se non fossero mai stati miei in fondo. Ti porto alla bocca e ti respiro come se fossi una boccata d'aria. Ti distruggo dentro i miei polmoni in mille atomi di fumo nero e denso. Mi soffermo a guardare le volute che si attorcigliano alle mie dita stanche e rassegnate. Appoggio il mento sul palmo della mano e resto ad osservarti. Ora non sei più fumo, ma vedo i tuoi occhi attraverso la cortina densa che ci avvolge e ci separa dal resto del mondo. I tuoi occhi obliqui riescono a bloccare ogni volta il flusso dei miei pensieri. Eppure sei lì, immobile e silenzioso. Sei lì e fissi le mie mani che non sanno star ferme. Con lo sguardo fisso su di me, porti alla bocca la tua sottile sigaretta. Con le dita dell'altra mano continui a sfiorarti la tempia, lentamente come se ti dolesse. Come se un brutto pensiero non riuscisse a darti tregua, mai. E mi fissi con il tuo sguardo sghembo. Il sorriso che appare quando non vuoi essere fumo. Quando smetti di combattere i tuoi demoni. E in quel momento vorrei ricordarmi delle mie stupide certezze. E vorrei che smettessi di scrutarmi. Temo tu veda troppo oltre. E vorrei non aver ballato con te, attraverso tutto quel fumo. Ad occhi chiusi, lentamente, al suono di un fiato tormentato. A piccoli passi, senza mai perdere il nostro centro. A tratti un equilibrio incerto. A tratti un baricentro che non sapevamo catturare. Senza conoscere i passi. Incoscienti come i bambini. Diritti e abbracciati, con i piedi radicati nel pavimento di sabbia. Il mio cappello calcato sui tuoi occhi. Io abbandonata sulla tua spalla. E il fumo che ci agguantava le membra stanche. Ti respiro... Un'altra sigaretta!

lunedì 15 aprile 2013

Claire de lune

Uno strano chiarore entrava in quella stanza. Grande e vuota, come lo era stato il mio cuore. Un fascio di luce gialla timidamente attraversava la soglia e s'insinuava sul pavimento. Un triangolo di luce si disegnava nitido e obliquo sul legno dipinto. Dalle finestre non entrava nulla se non un vago chiarore e voci in lontananza. Una musica a tratti. Leggera e dolce. Un pianoforte? Ascoltavamo in silenzio, rapiti dalle note scandite nella notte. Nessuna parola. Neanche il più piccolo respiro. In silenzio continuavo ad insinuare le mie dita fra i tuoi capelli morbidi e scuri. Ma il tempo è sempre troppo veloce per noi che con assenza di gravità passeggiamo sulla luna. Ogni volta un allunaggio perfetto. Misurato. Cadenzato. Come una danza che solo noi possiamo comprendere. Come tutte le volte che fissi i tuoi occhi nei miei e vorrei scomparire. Come tutte le volte che sfiori il mio viso. Come tutte le volte che mi abbracci e sento il pavimento spostarsi e perdo l'equilibrio. E sento di non avere più gravità. Come il chiarore che piano invadeva la nostra stanza. Era la luna che ci fissava curiosa. Illuminava le tue mani. Eri nel triangolo di luce per metà, l'altra metà era nascosta nell'ombra e curiosa cercavo di carpire ogni tua espressione. Era un sorriso? Forse un sorriso storto. Avrei voluto strappare le lancette all'orologio che sghignazzava beffardo sopra le nostre teste. Avrei voluto così tante cose. Avrei voluto dare forma ai miei pensieri. Avrei voluto per un attimo non odiarmi. Avrei voluto non odiare il mio corpo. In quell'istante allora tu poggiavi le mani sul mio fianco ancora dolorante e smettevo di odiarlo. Cessava l'odio e la rabbia. Lo ringraziavo perchè la mia pelle aveva già memoria di te. E ti fissavo. Rubavo un pò di te ogni volta che potevo. M'impossessavo dei tuoi strani occhi scuri. Occhi che guardavano sempre al di là di me. M'impadronivo delle tue mani bianche come la neve. Avrei voluto non chiudere mai gli occhi. Avrei voluto perdere il sonno. Così da poter portare ancora un altro pezzo di te con me. Quante cose ancora avrei voluto... E di nuovo il pianoforte invadeva tutto e l'aria sopra di noi diventava leggera e il silenzio era una sciarpa di seta che ci riscaldava. Eri in tutte le cose. Era nei miei pensieri e tra le mie braccia. E mi piaceva sentire il tuo respiro calmo e regolare. Avevi abbandonato la finta luce ed eri sulla mia pelle. Nel chiarore della notte che ci sfuggiva dalle mani. Liquida e veloce. Non avevamo presa su tutto quel buio e ci affidavamo agli altri sensi. E sentivo quel profumo ora così familiare. E sentivo il tuo tocco così delicato. E i tuoi occhi attraversavano lo spazio strettissimo che ci divideva. Quegli occhi che avevano sempre un bagliore caldo a dispetto dei tuoi pensieri spigolosi. A dispetto del tuo dolore così articolato. Come avrei potuto chiudere gli occhi in quel momento? Come avrei potuto privarmi delle tue parole non dette. Ma il tempo decideva sempre per noi. E già non eravamo più in quella stanza, ma in due differenti microcosmi. Allora e solo allora potevo chiudere gli occhi e riempire le mie notti delle visioni che avevo rubato. Il pianoforte mi riportava in quella stanza come se fossi fatta d'aria. Inconsistente e senza forma ero di nuovo lì ad osservarci. Ma questa volta il rettangolo di luce non c'era più. Avevo spento tutte le luci, lasciando solo la luna ad illuminarci e ad illuderci. Eravamo ancora lì, fra i tasti bianchi e neri, inondati di bianca luce notturna. E le tue mani erano ancora una volta sulla mia pelle, tra i miei capelli scomposti. Riuscivo a sentirti. Potevo fare ogni cosa, senza sforzo nè dolore. Cercavo di non aprire gli occhi, per non far svanire tutte quelle visioni a me care. E mi lasciavo cullare dal tuo calore, anche se non eri più lì ed io ero ora un fantasma inquieto in cerca di pace. E restavo lì fino al mattino. Quando ormai il chiarore del giorno annunciava la mia disfatta. Quando la luna aveva ritirato i suoi raggi perlati. Il pianoforte allora restava muto e io stanca chiudevo gli occhi, abbracciando le mie piccole visioni. La notte era finita e il giorno annunciava un'altra attesa. L'attesa di te. L'attesa del tuo sguardo e dei tuoi sorrisi. L'attesa di un'altra luna, che presto mi avrebbe riportata in quella stanza, stavolta nella mia forma mortale.

martedì 2 aprile 2013

In your room

"Ancora quei maledetti occhi che tanto riesco ad amare. Sono la mia gioia. Sono il mio tormento. Riesco a disegnarli tutte le notti sotto la pesante coltre di nuvole rabbiose... E poi svaniscono, come un crudele inganno... E sono di nuovo cieca!" Il pavimento lucido, coperto di vernice rossa come il sangue, aveva tante incrinature, scheggiature piccole e profonde. E come le cicatrici, lasciavano scorgere il fondo bianco ed esangue. Quel rosso accecante copriva ogni cosa, fino al confine massimo degli specchi. Impolverati e stanchi riflettevano immagini sbiadite e contornate di muffa vecchia e verdastra. Gli antichi affreschi, rovinati dal tempo, richiamavano ad una ricchezza che non apparteneva a noi. Scoloriti e confusi. I disegni avevano perso i tratti e i fiori delle cornici erano ormai appassiti. Fiori secchi che rammentavano alla mia mente valzer e gonne voluminose. I vecchi diplomatici erano stati sostituiti dalle calzamaglie rosa e dalla cipria bianca delle algide ballerine. Tutte uguali e simili a manichini senza trucco e senz'anima. Sempre in movimento, trasportate da antiche melodie che seguivano senza più cuore e senza ardore. In più punti il legno consunto confinava con la pietra grigia e fredda. Liscia e scambiata dalle intemperie. Inerme ed esposta. Unico baluardo di un tempo remoto. E i miei piedi nudi, poggiavano esattamente in quel punto di confine. Sulla soglia di un principio. Un principio che conduceva con sè anche una fine. Tragica, fatale, dolorosa, penosa. Piedi che non ricordavano più alcun tipo di equilibrio. Piedi che adesso conoscevano solo l'immobilità e la pioggia. In un limbo oscuro, restavo lì, in attesa, con il cuore turbato e l'animo agitato. Una forza esterna controllava il mio corpo, privandomi della possibilità di gioire. Fermando i miei piedi sempre in quella stessa, identica posizione. Non riuscivo ad impormi alcun movimento solo in nome della passione. Quella stessa passione che mi costringeva all'inganno. Ingannavo costantemente il mio cuore e i miei sensi esaltati, che disorientati non riuscivano a seguire i dettami di una mente bugiarda. Tutto quel maledetto rosso mi faceva pensare a quella malsana passione che aveva il tuo sguardo e i tuoi baci. Invoco sempre la ragione del mio tormento. La invoco e ne sono ostaggio al tempo stesso. Il dubbio mi perseguita come una condanna. La paura fa cedere le mie ginocchia. E resto così. Costantemente immobile. Sempre ferma nel mio dolore. E sempre invoco il tuo amore immaginario. Ho immaginato ogni cosa. Tutto inventato dalla mia mente che non riesce a stare ferma come i miei piedi. La mia passione m'impedisce di muoverli, ma costringe i miei pensieri a fuggire da te. A raggiungerti. Ovunque tu sia. Sono condannata al buio. In quella tua stanza dimenticata. Le ballerine hanno ormai invaso tutto il rosso, lasciandomi sul confine di pietra. Relegata in quello strano limbo. Immobile e silenziosa, resto ancorata ad un amore che mi parla senza sosta. Parla una lingua che io non comprendo e il suo canto melodioso è quello di una sirena ingannatrice. Ma non voglio sfuggire a quel suono, non saprei come fare ed è un dolce tormento, troppo seducente per non prestare ascolto. Aspetterò la notte per abbandonare la nuda pietra e scivolare finalmente nel suo abbraccio.