domenica 31 marzo 2013

Musa senza volto

La mia musa. Il mio amore. La sua scrittura. I suoi silenzi. La causa involontaria della mia afflizione. Il mio timore. La pioggia senza il suo sorriso oh musa! Non appartieni a me e non appartieni neanche a te. Oh musa dagli occhi tristi. Muta. Silenziosa. Incomunicabile. Bellissima nel tuo mondo privo di colori. Sempre distante e sempre nei miei pensieri. Dipingi la mia mente con colori vividi e luminosi. Ma quando scompare il tuo sorriso il mio cuore perde qualche battito. E posso solo scrivere di te e delle tue lacrime. Oh musa dalla scura chioma. Quella chioma che ossessiona le mie notti. Le mie dita attratte come una calamita. Sono fili scoperti e sensibili. Docili. Sottili. Inanellati tra loro, come le spire di un serpente nero. A tratti sembra che respirino, quando tu con le dita li sposti e li intrecci tra loro. Oh mia musa dagli occhi profondi quante volte riuscirai a togliermi il respiro? Ti ho modellata con la creta della mia fantasia e sei vivida nella mia testa, come un bagliore infinito. Un bagliore che non termina mai. Ti ho dato mani e soffio vitale. Ti ho dato lo sguardo ardente e triste. Un corpo armonioso e una dolcezza depositata sul fondo del tuo sguardo. Sei bellissima e non reale nella mia quotidianità e le tue mani non riescono mai a sfiorare il mio viso, i tuoi baci sono così distanti da farmi dubitare dei miei sensi. Le tue carezze, il tuo respiro, le tue dita sottili, solo di notte, nel buio dei miei pensieri diventano veri. Queste cose sono ed erano nella mia mente. Nell'oscurità che mi circonda. Nelle mie notti tetre e lunghissime. Notti fatte di respiri distanti. Oh mia dolce musa! Vorrei che tu riuscissi ad entrare anche nei miei giorni, sotto i raggi del sole, nel vento che trasporta la mia ossessione romantica. Mia musa, mio bene, mia creazione, non posso raggiungerti nel tuo eremo. E' una dimora troppo lontana per una mortale come me. I muri sono ardui da scalare e c'è la morte per chiunque invada il tuo giardino fiorito. Tu vivi separata dal mondo, in contemplazione solo di te stessa e percepisci la vicinanza umana come un'invasione. E io non posso invadere il tuo regno. E non posso abbracciarti perchè sei nascosta dal drappo rosso che ci divide costantemente. Ma quel filo invisibile che ci unisce mi riporta a te ogni volta che cerco di sfuggirti. Tu mi attrai e mi respingi, con la dolcezza delle tue mani di seta. Ma io non posso che scrivere di te, perchè sei il mio dolore, il mio amore, la mia musa.

sabato 23 marzo 2013

Abbraccio spezzato

Non riuscirò mai a raggiungere i tuoi pensieri. L'inabissarsi del tuo tormento. Costantemente in pena. Sempre silenzioso. Sempre troppo distante per me. E se il tuo sguardo riuscisse solo per un istante a parlarmi? Se per una piccola frazione riuscissi a comprenderti. Non voglio più il mare nei miei ricordi. Non voglio più tutto quell'azzurro che colpisce come una pugnalata in pieno petto. Non voglio più che i tuoi occhi... Non voglio più. E poi quell'abbraccio. Una stretta che sa di morte. La morte della mia carne, sempre troppo affamata, sempre fremente. Sempre arresa. E tremano le tue mani. Fredde e ferme sulle mie spalle. Per qualche attimo lunghissimo abbiamo danzato, sulle tue note, in tutto quell'azzurro, sulla riva incuriosita. Anche i gabbiani, curiosi, spiavano i nostri passi, piccoli e sempre incerti. Era come muoversi sulle punte dei piedi senza sentire alcun dolore. Ma il dolore è tornato e ha invaso ogni cosa. La spiaggia e il mare, i gabbiani, l'orizzonte. Ancora quel dolore che porti dietro le palpebre. Nella testa che non riesce a fermare le cose. Nelle mani che non trovano pace in nessun porto. Un dolore antico? Un dolore che sa di te e dei tuoi silenzi. Un dolore che versa lacrime copiose e dense. Ancora una volta hai infilato le mani nel mio petto e hai strappato il mio cuore. In un solo colpo. Con un'unica abilissima mossa. E sulle tue mani questa volta non c'era sangue, ma lacrime nere come la pece. Riuscirò a capire i tuoi silenzi un giorno? Potrò toccarti senza avere paura. Ho paura che il mio tocco ti faccia sparire, che ti porti via la vita, che ti faccia così male. Non posso guardare quella sofferenza. Mi distrugge ogni volta. Vorrei usare l'incanto per portarla via da te. Vorrei prenderla per me. Vorrei non vederla più sul fondo del tuo sguardo smarrito. Vorrei... Ma non so come. Non conosco il sortilegio per farlo. E vorrei solo morire ancora nel tuo abbraccio. Come la falena che si avvicina alla fiamma, mi avvicino dimenticando quel dolore, ma tutte le volte mi prende il viso, mi scuote, mi mozza il fiato, come l'acqua gelida del mare in pieno inverno. Mi avvicino e non m'importa di morire tutte le volte. Voglio morire nel tuo abbraccio di lacrime. Amore malsano. Amore di morte. Amore privo di amore. Amore zoppo, ma più bello del mare. Amore con le cicatrici. Amore senza battaglia. Stringimi nel tuo abbraccio sbagliato ancora una volta.

giovedì 21 marzo 2013

Il cuore avrebbe varcato la prigione delle costole per inseguirti...

E poi un giorno sei arrivato... Un giorno di pioggia. In una notte sconosciuta, fumosa, bagnata e rumorosa. Eravamo in uno spazio al di fuori del tempo, al di fuori di noi, sotto la pioggia a ripararci con le nostre parole di nulla. In quel piccolo spazio c'era solo odore di sigaretta e odore di te. Non lo conoscevo ancora, ma era lì e mi avvolgeva come una sciarpa calda. Sapevi del mio lungo inverno muto e gelido? Era dentro di me, dietro i miei occhi, non molto lontano dalle rose che tu avevi cristallizzato nel ghiaccio. Com'erano strani i tuoi occhi. Foschi, insistenti, tragici, sconfitti. Li fissavo rapita e ogni tanto vi scorgevo un guizzo di curiosità. Era come una piccola fiammella diafana, che a tratti faceva capolino tra le ciglia lunghe e nere. E la tua voce mi portava per strade familiari. Le vedevo nei tuoi occhi, attraversavo il tuo sguardo che fissava il vuoto e riuscivo a vedere quei sentieri. L'inverno lì non era sopraggiunto. Era tutto verde e rigoglioso, un giardino riparato da alti muri di pietra. Un giardino lussureggiante, variopinto, caldo. E fuori l'inverno. Il nostro. Ma per pochi attimi, la tua voce mi ci aveva condotta grazie ad un incanto. Per un attimo mi avevi tenuto la mano. Ma l'attimo svaniva sempre troppo presto. Abbassavi le palpebre per un tempo più lungo e ritornava l'inverno. Allora non era più la pioggia a circondarci, ma la neve che riusciva ad ovattare tutto. Come una piccola morte. Riaprivi gli occhi e io rivedevo la tua resa. Mi confondeva quello strano gioco di ombre che attraversavano le iridi. S'inseguivano di continuo, beffandosi della mia voglia di catturarle. Non c'era più l'idea della battaglia in te, eri come stremato... Le notti hanno ceduto il posto ai giorni. Le ore ai minuti. Non eravamo già più lì. Il nostro tempo si era deformato e ci stava danneggiando. Aveva roso i nostri ingranaggi stanchi. Ma i tuoi occhi restavano per me un mistero e mi toglievano il sonno. Le mie notti erano diventate lunghissime, troppo silenziose, troppo nemiche, perchè potessi catturarli. E al tuo cuore avevi messo ormai la sordina. E poi arrivò la tempesta violenta. Aspettavo una tempesta di fuoco, una lotta ed una conseguente quiete. Ma in una notte fonda, che non ha saputo contenere tutte le nostre lacrime, c'è stata una guerra troppo silenziosa. Il tuo cuore mi avrebbe davvero inseguita? Ora aspetto che arrivi da un momento all'altro, seduta qui, su questa riva desolata. Porto sempre il tuo incanto dietro ai miei occhi. E porto le cicatrici e le macerie e la solitudine di un cuore che non sa trovare pace. Un cuore inquieto quanto il tuo. L'ultima tempesta ha portato via i detriti da questa spiaggia e i flutti li hanno inghiottiti come perline. Ora riposano sul fondo devastato, invasi da alghe e conchiglie. La riva afflitta dai nostri passati silenzi. E i gabbiani si cibano di quelle strane parole, sussurrate eppure mai dette. E tu non sei qui. Che cosa ne hai fatto delle mie parole? Che cosa ne hai fatto delle mie braccia e dei miei occhi? Ora che non sanno più stare senza di te. Le hai portate in quella stanza, nel silenzio dei tuoi pensieri che urlano e graffiano le pareti della tua testa. Siamo ancora in quello spazio ristretto, sospesi tra i nostri abbracci e i nostri affanni. Ma ora che i tuoi occhi non sono qui, precipito costantemente in un abisso profondo dal quale non riesco a risalire... In quella notte tempestosa ho visto il mio cuore legato ad una roccia solitaria, battuta da venti gelidi e avversi. La tempesta ha spazzato via ogni cosa e ora quelle costole non imrigionano più il tuo cuore. Si è inabissato in me. E lo sento fremere e palpitare, pazzo furioso. Ingovernabile. Indomabile. Spossato. Non avresti dovuto liberarlo. In quella notte tempestosa ho scoperto che il mio amore aveva i tuoi occhi.

martedì 19 marzo 2013

Your hands are cold

Ero sul bordo delle cose, per paura di caderci dentro e non ritrovarmi più. Ero quasi sempre in bilico, senza equilibrio cercavo di camminare sul filo della tua assenza. La tua assenza era una presenza fortissima che non mi permetteva di muovere un passo dietro l'altro. Su quella corda tesa, mi ritrovavo a guardarti. Guardavo te e non la tua assenza. Le tue dita sottili che giocherellavano spesso con le ciocche disordinate dei tuoi capelli. Non tentavi neanche di riordinarli, ti limitavi a tirarle verso il basso, una per una, quasi volessi allungarle come elastici neri. Poi stanco di questo gioco solitario, passavi entrambe le mani sul viso, come a volerti togliere una scomoda maschera. E allora le dita s'infilavano morbide nei capelli, scomparendo completamente alla mia vista. Restavi così. Con il capo reclinato indietro, gli occhi chiusi e la gola bianca offerta e indifesa. Ancorata alla mia fune, ero lì e quella visione mi abbatteva completamente. E per un lunghissimo attimo dimenticavo la mia posizione di scarso equilibrio e affondavo nell'estasi di quella illusione. Stare sul bordo ed osservare era per me un porto sicuro, era la mia salvezza da occhi come i tuoi, era il mio paracadute da mani come le tue. Poi ho smesso di osservare soltanto e ho permesso alle tue mani di affondare nel mio petto. Ho permesso alle tue parole di creare echi infiniti nella mia mente, ai tuoi silenzi di plasmare ombre attorno a me. E quelle ombre concepivano sempre nuove forme. Mai riconoscibili, mai familiari. Ogni volta mi avvolgevano e si allungavano sempre di più, come se ci fosse il sole di un tardo pomeriggio estivo a giocare con loro a nascondino. Cercavo di afferrarle o restavo ostinatamente a guardarle. Ma non accadeva mai che giocassero con me. Stanca allora di un gioco di cui non conoscevo le regole, me ne ritornavo sul mio filo, ma avevo perso un altro grammo di equilibrio. La mia anima non aveva più scarpette leggere, erano diventate di piombo e affondavo sempre di più nel tormento della tua assenza. Assenza. Assenza di equilibrio. Assenza dei tuoi occhi. Assenza del tuo profumo e dei tuoi gesti. La tua assenza nelle mie braccia, sulla pelle e sul viso. Quella lontananza che mi piegava le ginocchia, prepotente e distruttrice quanto la tua presenza. Mi pugnalavi sul fianco e poi mi curavi come un medico sapiente. Mi graffiavi e leccavi le mie ferite, eri la piaga fantasma che non guarisce mai. Ma tutte le volte tentavi di colpirmi e affondavi sempre più a fondo la tua lama, per poi stringermi nel tuo abbraccio. E in quell'abbraccio tu mi parlavi, ma non sentivo. Non ascoltavo che la vibrazione delle mie gambe e la tua stretta che mi faceva pulsare le tempie. Sentivo le braccia come morte. Eri entrato come un uragano silenzioso nel mio ordine chiuso. Un ordine che avevo costruito fin nelle pieghe più sottili dell'atmosfera. A volte era un ordine impercettibile, ma era per me la minuziosa imitazione di un equilibrio. Finchè un giorno non hai sovvertito questo piccolo mondo, scuotendomi con i tuoi sguardi disseminati di silenzio. E calmo, hai distrutto la diga, scaraventandomi in quel vortice di dubbi, di domande senza risposte. Le risposte che non avevi. E restavi lì, lasciando che ti ritraessi con i miei occhi di metallo. Fermo e incuriosito, nutrivi la mia fame di te. Per colpirmi più forte, sei caduto sulle ginocchia doloranti, hai tolto gli orpelli dal petto e dalle spalle. Spaventata, ho continuato a ritrarre il tuo maledetto viso disperato. Sottraevo altri grammi al mio misero equilibrio, dalla mia carne, dalla mia volontà. Ora potevo avvicinare la mia mano ai tuoi capelli... Allora di colpo sembrava che tutte le corde degli archi si fossero rotte nel medesimo istante. Come una staffilata nel momento più silenzioso di una sinfonia. Allora continuavo a tacere. Allora continuavo a prendermi i tuoi occhi, mentre tu mi avvelenavi un pò di più. E le mie mani erano fredde. E ritornavo sul bordo a guardarti giocare con i capelli. Ora ne riconoscevo il profumo e la loro assenza.

mercoledì 13 marzo 2013

Summer 78

Con il favore della notte sei entrato in questa stanza. Una stanza piena di gemiti e singhiozzi. Da quella foto, ancora una volta, rinchiusi in quel piccolo spazio. Una scatola? E fuori la pioggia era intenta a lavare tutte le nostre incoscienze. Inconsapevole e silente. E qualcuno suonava quei tasti. Sentivo respiri regolari e alternati, come piccole onde s'infrangevano sui miei fianchi doloranti. L'elettricità di quel temporale tamburellava sui vetri bagnati e tremanti. "Hai sentito?". No. Non potevo che ascoltare le tue mani sulla mia pelle. Con il favore della notte potevo non vedere i tuoi occhi, ma potevo saziarmi della tua pelle che non aveva memoria di me. Le tue mani disegnavano ora su una nuova tela. E in qualche angolo sperduto della nostra testa pioveva ancora, come se il sole fosse sparito per sempre. Non allontanarti ora. Resta con me! Resta nei miei occhi e vattene dal mio ricordo. Non voglio ricordati. Voglio cancellarti nell'attimo in cui vedrò solo le tue spalle. Voglio cancellarti quando non avremo più il favore di questa notte piovosa e lenta. Tanto lenta. Riesco ancora a vedere i tuoi occhi in tutto quel nero. Non voglio ricordare il tuo odore, perchè quando tu non sarai qui mi provocherà fitte acuminate al fianco sinistro. Sarà un dolore sordo. Persisterà e resisterà nell'aria e io odierò la tua assenza. Allora, vattene via e portati quel ricordo che già si attorciglia al mio ventre come una piovra. Ha già macchiato il mio petto. Che neanche questa pioggia riuscirà a lavare via. Il mio corpo ha memoria. Ricorda e ne porta i segni. Ci sono tante morti sul mio cuore. Ha vissuto tante vite e indossa sempre lo stesso abito, quello grigio della solitudine. L'abito della non-morte. L'abito della non-vita. Non indossa il drappo del lutto più profondo. Ma quello di un lutto senza conforto. Un corpo che non sa essere mai nudo. Che non sa dimenticare. Che non può cancellare. E io non voglio che tu veda quelle cicatrici. Non sono per i tuoi occhi, nè per le tue mani. Ma le tue labbra sono qui. E vorrei trattenerti, ma non so come. Vorrei che tu restassi qui, in questa stanza. Vorrei che non smettesse di piovere e che la luce gialla filtrasse piano dai vetri. Ma tremo al pensiero che tu possa leggere oltre. Allora mi volto e spero che la luce liquida dei lampioni si spenga all'istante. Il mio corpo si difende e trema. Come le onde del mare, come piccoli cerchi sull'acqua che si agitano sulla supeficie. E vorrei fermarlo, con la forza del pensiero, con le mani, sotto il tuo peso. Ma non accade. E la pioggia non si ferma. Inconsapevoli del danno, i tuoi occhi mi attaccano come vermi su un cadavere. Invadono e calpestano. E riescono ad aprire le mie costole per insinuarsi dentro il torace cavo. Come puoi farlo? Sento le ossa spezzarsi e la pelle lacerarsi. E rivoli rossi tingono il pavimento. Lentamente scivolano tra le fessure, nelle venature del legno. Raggiungono il confine di pietra e macchiano ogni cosa. La tua presenza è un dolore che sto imparando a riconoscere. Perchè guardi le rose del mio volto? Sono rose ormai appassite. Ho pochi sorrisi e nastri variopinti al posto delle vene. E i miei polsi sono piegati. Perchè la notte è fredda e io vengo dall'inferno. Sei l'Orfeo che è riuscito a salvarmi e tra le mani hai un pezzo del mio cuore. Quello che credevo di aver bruciato, quello sepolto dalla cenere fumante. Non puoi restituirmelo. Non voglio. So che vorresti tornare indietro, ma il tempo non puoi fermarlo neanche fossi Crono. Non puoi restituirmi i giorni dell'inconsapevolezza. Non puoi riprenderti quelle lacrime salate. Ora sono mie. Sono la mia palude e tu non puoi salvarmi dall'annegamento. Ferme, cristallizzate, nella rete imprigionate. Il temporale si avvicina sempre di più e l'acqua più forte travolge le strade e i nostri pensieri. E come la furia della tempesta dovresti uccidermi, sezionarmi, dissanguarmi. Non dovresti voltarti, ma ignorare il mio freddo livore. Dovresti sorridere. Cancella quella parte di pelle che rigenera e nutre il ricordo. "Hai sentito?". No. Non posso che ascoltare il tuo respiro. Ho amato i miei demoni e non so amare una creatura diversa. Non sono come te. Sono un mostro deforme e cieco. Sono un'idea sbagliata. Sono solo un esperimento. Io sono la malattia e il contagio, non sono la cura. Dovresti difenderti dal mio contagio. Non puoi confortare un'anima assente. Il mio tormento è antico e senza pace. Attorno a me non vi sono che macerie e fumo nero. Non posso costruire che case contorte. Non so più comporre, non so più farlo. Non ho che gambe malferme e chiodi nelle braccia. Non c'è misura in me, ma un nulla sconfinato e cocci e lame taglienti. Le mie mani non hanno mai ricevuto, ma ora conoscono il tuo viso e saprei disegnarlo. Ma temo che la pioggia possa smettere. Abbiamo ancora il favore di questa notte generosa? Ho paura che tu possa vedere tutto il mio dolore. Di tutto quello che sono riuscita a farmi senza sentire nulla. Di quelle lacrime che mi hanno fatta vomitare il cuore, accartocciata a terra tra ferri roventi e lamiere contorte. Ho paura che tu veda ogni cosa. Presto non avremo più il favore della notte. La pioggia svanirà. Tu abbandonerai questa stanza. E ho paura poichè è notte che sia un sogno soltanto.

lunedì 11 marzo 2013

E una figura deforme rubò il mio cuore

Forse dovrei smetterla di venire qui, vicino al mare. Smetterla di pensare ad eventuali vie di fuga. Dovrei smettere di fare così tante cose... Dovrei smettere di pensarti. Dovrei... ma non ci riesco. Non ci sei, eppure sei sempre costante nei miei pensieri. Dovrei smetterla di inseguirti, ma davvero non so farlo. Sei una presenza muta, silenziosa e flemmatica, ma ci sei e io non posso farne a meno. Dovrei smettere... Dovresti smettere anche tu. Smetterla con la tua gentilezza innata. Dovresti smetterla di essere come sei con me. Dovresti smettere di fissarmi, smetterla con il tuo dialogo muto. Dovresti, ma non lo fai. E non so perchè non lo fai. Avresti infiniti motivi per farlo. Saresti libero di non spiegare più nulla ai miei occhi. Non dovresti più guardarmi. Non dovresti più forzare le tue parole a risalire dallo stomaco alla gola. Non dovresti più sentire che raschiano il palato come piccoli chiodi appuntiti. Non dovresti ogni volta deglutire come se tentassi di affogare quelle parole nella tua saliva, per poi ricacciarle giù, tra lo stomaco e il cuore. E io non sarei più costretta a fissare la tua gola, a quanta fatica ti costa, con quanta violenza lo fai. Ma ogni volta lo fai e io mi ritrovo a fissare ipnotizzata il moto inconsulto che compie la tua gola bianca. Allora alzo lo sguardo e vedo i tuoi occhi fissi nei miei. Ci fissiamo e ci facciamo del male con lo sguardo. E so che la tua trachea sta cercando di ricacciare quelle parole in fondo. Più giù. E vedo la tua tempesta... Non dovresti più fingere di aver lasciato il tuo tormento a casa. Non dovresti fingere di avergli messo il guinzaglio. Non dovrei più ricacciare dietro i miei occhi, le lacrime. Perchè i tuoi stentati sorrisi mi fanno lacrimare. Perchè io so delle tue battaglie interiori, so della forza che ci metti per traumatizzare i tuoi pensieri. So della tua faccia scura, della tua paura, del tuo orrore. Di tutte le macerie che tenti di nascondermi. Di tutte le abitazioni malferme che hai costruito sopra. So con quanto dolore ti fai guardare dentro. So di aver visto cose che non avrei dovuto, perchè da quel giorno tormentano anche me. E non devi sapere del mio tormento. E devo fingere di essere una persona che "Non nota". E ora, mi risulta difficile non guardare la tua gola o i tuoi occhi. Mi sforzo di non comunicare nulla con gli occhi, ma non sempre posso controllarli. Quelle orbite assassine e traditrici. Quelle orbite che vedono ogni cosa. Anche le cose perdute. Dovresti proprio smetterla di essere lì, alle mie spalle, a fissarmi quando infuria la tempesta. Non dovresti prendere le mie mani. Non dovresti avvicinarle al tuo viso. Non dovresti più incidere la tua guancia sul mio palmo. Perchè brucia. Il tuo viso arde e freme e la mia mano non sa darti sollievo. E vedo un'altra battaglia. Vedo altre morti e sangue e dolore mal celato. Vedo lacrime, ne sento i gemiti silenziosi. Vedo la rabbia dietro le palpebre, nel tuo pianto convulso e invisibile. Dovresti smetterla di assistere alla mia agonia. Non rendertene partecipe, ti prego, non tentare di capire, non guardarmi con quegli occhi che sanno troppo. Io non sono alla tua altezza, io non sono come te e dovrei smettere di fingere di esserlo. Tu non dovresti guardare "oltre" e io dovrei riuscire a dirti "vattene". Invece i nostri occhi non sanno mentire. Continuiamo a farci del male, eppure non sappiamo resistere dal non farlo. Ci infliggiamo dolore. Ogni volta, combattiamo sapendo di perdere. Dovremmo proprio smetterla di raccogliere cadaveri e lance spezzate e armi insanguinate. Dovremmo zittire quella parte, che puntuale come un orologio nefasto, ci sussurra di non armarci e di combattere ugualmente. Smettila. Tenta almeno una volta. Prova a chiudere i tuoi occhi, prova a non mostrarmi... Dovrei smettere di sognare tutte le notti la tua gola bianca, le tue guance e le tue mani sottili. Dovrei non pensare alla punta del tuo naso. Quella punta che come un uncino, arpiona la pelle del mio viso. E non pensare più alle tue ciglia nere e lunghe come le penne di un corvo. A quelle ciglia che formano delle ombre lievi sul tuo viso. Quelle ciglia che sento sotto le mie dita. E so che da sotto a quelle piccole tende, tu mi osservi, immobile e silente come una statua di granito. Forse potrei anche smettere di pensare al tuo cuore che pulsa. Lo credevo morto, pensavo fosse ora una carcassa nera in decomposizione. Dovresti smettere di occupare i miei pensieri, la notte. Non dovresti entrare nel mio coma, come un traditore, perchè in quei momenti io non posso combattere, perchè ho deposto le armi, perchè sono abbandonata e vulnerabile, come un fiore sul ciglio della strada. Sono lì, sulla linea bianca che divide il cemento dall'erba che cresce selvaggia. E non posso far altro che soccombere. E soccombo al tuo pensiero, ogni volta. Ogni volta, una nuova sepoltura. Ogni volta una piccola morte al mio risveglio. Indolente e svuotata resto ad osservare la nostra camera ardente. E non posso piangere alcun cadavere, ma solo un'assenza che mi colpisce in pieno viso. Una non presenza che mi prende lo stomaco come un pugno d'acciaio. Allora ripenso a quegli occhi che non ho saputo asciugare, a quel dolore che non ho saputo capire. Ripenso alle parole non dette, a quel silenzio che ci attraversava il petto e le spalle. Chiudo gli occhi, tentando di scacciare quell'immagine, ma non và via... Solo il mare riesce a placare il ricordo, per un attimo. Allora corro sulla spiaggia e lascio che il vento porti via le mie notti insonni. Ma appari tu. E non dovresti! Non dovresti guardarmi. Non dovresti più... Non dovrei più...