giovedì 20 dicembre 2012

Porpora sulle mie dita

I miei occhi gelidi e il mio dolore accucciato dietro le palpebre. Le mie dita anchilosate dal freddo. I piedi scalzi mi portano a camminare avanti e indietro sulla corsia rossa. Quasi cercassi di scavare un solco con le mie orme. Un corridoio di passi. Nessun pensiero. Rabbia e silenzio. In tutto questo vuoto primordiale che mi avvolge e mi soffoca. Sei stato la mia bambola. Ed io il tuo automa. La mia bambola di carne, dalla pelle diafana, dalle mani morbide. La mia bambola con i polsi sottili. Polsi che avrei stretto. Quei polsi che lasciavano intravedere le vene pulsanti. Li avrei legati con corde doppie, finchè le tue vene non avessero smesso di pulsare, finchè dalla tua bocca non fossero usciti che fiotti di sangue scuro. Avrei stretto le mie mani attorno alla tua gola. Avrei voluto vedere la vita sfuggirti dalle membra. L'energia svanire dal petto. Che bella la mia bambola immobile! Un ticchettio mi ricorda che devo camminare ancora molto. L'orologio cardiaco mi dice che è tempo di correre. Guardo fuori dalla finestra. I rovi e i cespugli hanno sepolto la casa. I rami, come tentacoli di un mostro marino, hanno rotto i vetri e si sono impossessati di tutte le nostre cose. Delle tue rose bianche e della mia meccanica sbagliata. Del nostro vuoto colmo di tacite promesse. Delle nostre colpe, dei nostri vizi e delle nostre tentazioni. Nessuno saprà mai... Nessuno lo capirà. Quanto siamo stati infelici e distanti. I miei rimpianti mi lasciano insonne mentre accarezzo le tue ferite mai rimarginate. Chi sei tu oh mostro senza occhi? Che vuoi tu famelico essere senza cuore? Ho rinunciato alla mia salvezza per le tue azioni impunite. Continuo a camminare sulla lingua di tessuto. La striscia si restringe sempre di più. Poggio solo le punte, in equilibrio precario. Le pareti si avvicinano ancora di più. Sono nella scatola cinese che tu hai costruito per me. Sono in quel corridoio infinito, senza porte ne finestre. Nessun bagliore, ne un rumore. Solo un sordo tamburellare. Tu-tum, tu-tum. Un piede davanti all'altro, tenendo per mano il mio odio. Ti sentivo ringhiare come una belva e assaporavo l'avidità delle tue parole artefatte. La marea che montava dietro le tue spalle. Tu-tum, tu-tum... La mia meccanica ha avuto un attimo di sospensione. In controtempo, salta gli accordi giusti. Ho graffiato le pareti, la pelle delle mie dita si sfalda come i petali di un fiore marcio. Tu... tum. Ho perso un battito, quello che ora è nel tuo stomaco. Ho smarrito la pulsazione perfetta mentre guardavo i tuoi polsi stretti. Il bianco latte della tua pelle di bambola fa correre le mie battute sempre più irregolari. Sei il frutto proibito di tutte le mie fantasie. Sei la mia fuga da tutto ciò che è reale. Sei il mio veleno salvifico. Ho spento le luci. Ho tirato le tende e tolto i fiori appassiti dai vasi. Ho aspettato di sentire la tua flebile presenza. Ti ho cercato nello specchio alle mie spalle, nella penombra di quel mattino di nubi. Ma tu non eri più in quella stanza. C'era solo l'impronta ferma del tuo piede, le tue parole e i tuoi battiti. Ricordo ancora il tuo incedere insicuro e il tremore dietro le mie ginocchia. Eri qui e in tutti i miei luoghi. Tu-tum, tu-tum ancora... Un ritmo incalzante e ossessivo. Cammino e fisso i miei piedi scalzi. Come si fà a stare dall'altra parte del vetro e lasciare le mie mani lì su di te? Ricordi quando il cielo non era una minaccia per noi? Quando il tuo cuore batteva, correva, spingeva come un pugno nel mio stomaco? Quando attraversavi la mia pelle e le mie ossa come un'onda, quando mi vedevi donna... Tu-tum... Devo correre ancora. Ora che il corridoio sta terminando ti vedo al di là della striscia di luce. Al di là del nostro amore, oltre tutte le cose che ti tenevano legato a me con quel filo rosso che mi stringe ancora il fianco sinistro. Ti ho visto. Solo per un attimo. Ti ho visto nella cornice di luce dorata. Tu-tum, tu-tum, tu-tum, devo correre. Eri la mia crudele realtà. Eri la mia bambola. Io lo stupido automa di latta. I tuoi polsi erano legati al mio cuore. Non posso muovermi. Sei sul tetto di quella casa abbandonata. Se tu salti... Io muoio, perchè il nastro mi staccherà di netto il cuore dal petto. Non saltare. Chiudi gli occhi e sentimi. Libererò i tuoi polsi. Tu-tum, tu-tum, tu-tum... Resta con me!

mercoledì 12 dicembre 2012

L'abbraccio

Ho percepito la tua presenza e il tuo odore che ristagnava sui miei vestiti. Attraverso tutto quel freddo e quella pioggia, camminavo a passo svelto evitando le pozze d'acqua scura. Tu mi seguivi senza dire una parola, senza fretta, stretto nel tuo cappotto notturno. Come un'ombra con le ali, come una mano guantata che ti afferra la gola. Come la distanza che in un attimo abbiamo dimezzato. Come le mie mani che non sapevano stare ferme. E poi la pioggia ci ha tolto lo spazio e ha avvicinato il respiro. In uno sguardo perso nel buio, attraverso lo spesso strato di lana metallica. E poi il salto nel vuoto, le pause lunghissime e gli occhi di una pantera nella penombra di una gabbia. In una notte sola, in un alone soffuso e indistinto, in un tempo limitato e scattante. Nei tuoi sguardi e nel tuo tocco delicato. Abbiamo liberato la pantera. Nessuna paura in tutte le nostre corse notturne e gelide. I pixel si riflettevano sul volto nero, ma i suoi artigli non graffiavano e le sue fauci non erano terrificanti, i suoi gemiti dolci come il miele. Dopo 100 anni di prigionia, dopo la rabbia e il dolore, dopo le distanze, dopo tutte le lacrime, era lì a fissarti dallo schermo sigillato. Quando hai smesso di temerla? Quando hai tentato di toccarla? Il corpo flessuoso e snello, lo sguardo fiero e triste, la pelle... La pelle che per un attimo ha smesso di ricordare. Il profumo è stato sostituito e non c'era più la pioggia nè il freddo. C'era una nuvola e i piccoli rumori della città che sonnecchiava placidamente. Un fascio di luce ambrata. Le scarpe con il tacco rovesciate di lato sul pavimento soffice. Una giacca che sapeva di rossetto antico. Calze bianche e odore di fumo e il nostro abbraccio stanco. E la pantera ha vinto di nuovo la sua battaglia interiore. In tutto quel nero, in quella pelle colorata, in quelle ciocche sparse e intricate come rovi. In una mattina livida ho tolto il rossetto e gli orecchini luccicanti. In quella mattina dimentica di tutto, ho ripassato la matita sbiadita e ho ridipinto i miei occhi. E il mio cuore bruciava... Le mie mani tremavano. Ancora odore di miele. Spire di fumo azzurro volavano lievi sopra le nostre teste abbandonate. Noi, ancorati a lenzuola, a parole non dette a sguardi... E in quello specchio ho visto di nuovo pioggia e attesa. Ho sentito il freddo metallo richiamare la mia rabbia. Ancora una volta attendevo la fine. Una fine che non sarebbe arrivata per mano tua. Ho rimesso gli artigli e ho premuto il grilletto. Ho sparato senza che alcun pensiero attraversasse la mia mente. Senza pietà. Ancora un colpo e un altro ancora...

domenica 2 dicembre 2012

Attraverso...

Riesci a farmi dubitare dei miei sensi. Riesci a mettere in dubbio tutte le mie certezze. Distruggi ogni giorno i miei castelli di sabbia. Hai devastato ogni mio momento di gioia. Come un tremendo uragano hai travolto la mia casa e alla fine non ho trovato nessun sentiero dei mattoni gialli. Non sono Dorothy, non sono una principessa e non c'è alcuna fatina buona nella mia storia. Nessuno mi suggerirà la risposta giusta, nessuna buona azione cambierà l'esito di questa storia già vista, già letta, già sentita. Cosa cerchi? Cosa vuoi? Perchè mi tormenti così? Il tuo pensiero mi tortura come un terribile macigno che mi pesa sulle spalle. Non riesco più a stare diritta, ho assunto ormai la tua posizione. Quella di un uomo stanco e senza alcuna speranza. Attraverso il vetro riesci a vedere al di qua tutte le notti. Mi osservi e mi studi. Sono il tuo scarabeo sotto vetro. La tua cavia. Riesci ad essere in tutte le mie cose, nelle mie notti lunghe e fumose. Sei nella mia insonnia, nei miei pensieri che non sanno darti un volto. A volte riesci a portarmi pensieri leggeri, come l'odore del gesso della scuola e le grida dei bambini che facevano ricreazione nel cortile adiacente. Ricordo che a volte in primavera al di là di quei vetri riuscivo a vedere alberi in fiore, forse erano meli o forse mi piace ricordarli così. Altre volte i pensieri che mi porti sono lugubri e grevi. Sembrano suoni pesanti e ovattati che mi avvolgono come una nebbia fitta che mi si attacca alla pelle. Che cosa vuoi? Perchè riesci a torturarmi così? Parlami dei tuoi ricordi di bambino... Parlami di quando i tuoi pensieri erano come i fiori di campo, quando eri felice, quando il tuo cuore non aveva pesi, quando la tua pelle non aveva ancora memoria. Parlami di te. Per una volta, parlami di te.

mercoledì 28 novembre 2012

Lo specchio (4kg)

Mi stringevo nel maglione rosso di due taglie più grande. Non avevo più nulla da dire. Tutto era svanito in un attimo. Anche i miei ultimi 4 kg. Quei miseri 4 kg che segnavano il confine della mia follia in un corpo già esile. Un corpo che un tempo consideravo sacro e che ora torturavo giorno dopo giorno. La mia pelle aveva già perso la sua lucentezza. E le ossa, ora, in perfetta evidenza, segnavano il limite assoluto della mia perduta stabilità. Non provavo alcun rimpianto guardando allo specchio quel triste figurino. Non ero più una donna e non ero neanche un uomo. Ero un ragazzino efebico, senza più cuore né arterie. I capelli sembravano fili sottili, senza più spessore. Aridi. I miei piedi erano come le zampe di un corvo. La mia espressione, incerta e smarrita. Tutto in me era svanito. I miei sorrisi erano in quei pochi grammi dispersi. Cercai di stringere quel maglione logoro attorno alle mie ossa, per farlo aderire. Accennai un sorriso allo specchio nemico, ma sembrò la smorfia di un pagliaccio stanco. Due solchi violacei disegnavano ombre sotto i miei occhi, il naso era diventato la punta acuminata di una freccia. Le mani erano scomparse nelle pieghe delle lana rossa. Spuntavano solo le ginocchia. Ossute e stanche. La pelle tesa e increspata da piccole fenditure, mi faceva sembrare una vecchia bambola impolverata. Ero come la bambola dimenticata in soffitta, attaccata dalla polvere, con i capelli rosicchiati dai vermi. Continuai a fissarmi allo specchio, alla ricerca di un barlume di vita. Ma nulla in me faceva pensare al vigore della giovinezza. Ero diventata il presagio di morte di me stessa. Ero l’attesa. L’attesa spasmodica della conclusione. Ero quell’attesa che simboleggiava il mio male, il mio supplizio, le mie lacrime. Quando sarebbe arrivata la fine che tanto bramavo? Lo specchio mi rimandava un’immagine bloccata in un torpore costante, in un’inerzia sicura che mi cullava come se fossi una neonata. In rari momenti fugaci i miei occhi apparivano risoluti, ma quegli attimi svanivano sempre troppo presto. Cercai la matita nera, nel caos primordiale che mi circondava. Se truccassi i miei occhi... Cambierebbe il mio sguardo? Sarebbe forse più normale? Ma quando sono stata veramente normale? Ormai non lo ricordavo più. Forse da bambina, quando preservavo le mie ginocchia dalle sbucciature. Ora preservavo il mio cuore dai colpi fatali della vita. E custodivo gelosamente il mio segreto. Non sanguinava visibilmente il mio corpo, ma si contorceva tra gli spasmi, bruciava nel fuoco invisibile che era dentro me. La mia mano, ora esitava, a metà strada tra l’occhio destro e la fronte. Come si trucca una bambola? Come si dipinge il viso di una persona quasi defunta? Portai le mani al petto facendo pressione. Batteva ancora! Frustrazione! Come avrei potuto cavarmelo dal torace? Senza sentire dolore e senza anestesia. Senza perdere né sangue né tempo. Non avevo più unghie per intaccare la mia pelle diafana. Continuai a fare pressione. Avrei trovato il modo. Dovevo farlo! Senza cuore, mi tormentavo in quel gelido mattino. Dov'era finita la mia carne?

domenica 25 novembre 2012

Untitled

Per desolate strade abbiamo camminato... Per quanto tempo? Ho sentito sulla nuca il freddo metallo. La canna della pistola non mi ha terrorizzata quanto i tuoi modi, quanto i tuoi occhi freddi, quanto le tue parole sospese. Dentro un giorno sempre uguale. Senza più sole, invasi dalle polveri sottili, affogati dal cemento armato, soffocati nelle metropoli aliene. Quanti ricatti ancora dovrò subire? Mi sento sconfitta, perché mi sono arresa troppo presto e troppo facilmente. La nostra mente diabolica e il nostro gioco perverso, ha fatto un'altra vittima. L'ennesima vittima del nostro atroce sistema. Sul palco, cantavi la nenia mortale. Ho aspettato che della tua vittima ne facessi mattanza per il nostro oscuro piacere. A cosa è servito tutto questo dolore? Noi ne siamo usciti più forti e più uniti, ma la nostra vittima è lì, sull'altare e gronda sangue. Del suo sangue sono ancora intrise le nostre mani. E per queste strade, hai stretto forte le mie mani. Non dire nulla, io ho capito. Ho capito che nonostante tutto il male che siamo capace d'infliggerci, ci ritroveremo sempre. Non voglio lasciarti affondare. Non voglio vederti annegare. Sulle note di quella chitarra lamentosa, quante volte ho cantato? Ti ho odiato così tante volte e così ferocemente che non ne ricordo più il motivo. Mi hai condotto per strade sconosciute e strane. Mi sono estraniata da tutto e tutti. Ho trovato il senso di me stessa dentro i tuoi letali abbracci. Com'è strano, aspettarti ancora. Come la prima volta. Come tutte le altre, dopo. Ricordi la prima volta che mi hai guardata negli occhi? Quando hai capito che io non sarei stata la tua prossima vittima, quando hai capito che io ero esattamente come te. Ero come il tuo sangue. Ero come la tua carne. Ero io la tua perversione più grande. Corpi. Corpo. Carne. Sangue. Allucinazioni oniriche. Mi vuoi viva o morta? Nella luce grigia di un mattino piovoso, ho trovato la nuova sceneggiatura. Quella che mi permetterà di girare il prossimo film...

domenica 18 novembre 2012

Nuvole bianche

Dimmelo tu cosa fa male! Quando dormi senza farlo davvero. Quando la notte ha ciglia lunghe e bagnate. Mangiare senza sentire il sapore di nulla. Sentire il peso di un corpo che non ti appartiene. Ascoltare qualcosa che solo tu senti. Perdersi in un abbraccio inesistente. Quando cammini e senti un ritmo tra lo stomaco e il cuore, ma lo senti solo tu. Amare e prendere calci in faccia. Logorarsi per qualcosa che non accadrà mai. Quando la tua intelligenza ti permette di capire alcune cose prima di altri. Quando sai tante cose. Hai viaggiato, letto, scritto, danzato, cantato, dipinto, fotografato, ma in fondo sei ancora al punto di partenza. Ancora fermo su quella melodia che batte dal centro dello stomaco e si espande in tutto il corpo. Quando ti manca la terra sotto i piedi. Quando piangi per ore e non puoi dire il perchè, forse perchè non esiste un vero motivo. Quando anche aprire le tende ti costa fatica. Quando senti il dolore che diventa vivo. Lo senti sulla pelle, come un ago. Lo senti con le fitte e gli spasimi. Lo avverti con gemiti e grida, lacrime, sangue e cenere. Se servisse, porterei via il tuo dolore con me. Se potessi me lo cucirei addosso come un'ombra, come un cappotto pesante che indosserei anche in piena estate. Lo porterei via con me, nelle mie mani, nelle mie gambe, a ritmo dei miei passi svelti. Ora sono più fragile. Ora sono la creta che non si ricompatta mai. Ora sono la vernice che gronda dalle mura, ora sono nelle tue mani. Ora puoi fare ogni cosa. Puoi entrare dentro le mie braccia, come se fossi uno spettro invisibile. Come un fantasma ora puoi invadere l'aria che mi circonda. Il mio desiderio ha superato la ragione, ha superato ogni distanza, ogni ostacolo. Ogni attimo viene scandito dal mio orologio interno. Da quel ticchettio che mi ricorda la fine. Dalle lancette impietose che mi segnano, che mi atterriscono, che mi devastano. Parlami ancora. Parlami ora che non sono me stessa, ora che sono vulnerabile, ora che sono incosciente di nuovo. Parlami ora che sono tra la vita e la morte. Parlami come se il mondo dovesse svanire tra un attimo. Parlami ora che sono debole, ora che le forze mi hanno abbandonata per un attimo, ma che sono prossime al mio sangue. Parlami ora che il tempo sta fuggendo dalle nostre mani, ora che nelle nostre menti c'è solo il delirio. Parlami ora! Ora potrei sopportare la perdita e l'abbandono e folle di rabbia potrei gridare ancora. Fra poco non sarò più me stessa. Fra un attimo avrò indosso la mia vecchia armatura di plastica. Dimmelo lentamente. Respira e dimmelo. Parlami del tuo dolore antico come le macerie dopo la guerra. Dimmi delle tue ferite non curate. Dimmi quanto fanno male le nuvole bianche in un cielo limpido. Dimmi quanto ti fà male la pioggia. Dimmelo adesso. Non pensare alle parole. Non pensare a quanto sanno far male. Respira e dimmelo ora. Ti penso. Ti voglio. Ti cancellerò. Fallo ora o non farlo. Ma non farlo in un giorno di pioggia in riva al mare. Fallo quando non ci saranno nè nuvole, nè livore all'orizzonte. Fallo in primavera. Fallo quando il sole annuncerà la calda estate. Dimmelo quando ormai sarai solo una proiezione delle mie paure e dei miei desideri. Spaventami. Parlami ancora. Parlami dei tuoi sogni, di quando ti sei perso dentro di me, di come mi sono smarrita io dentro le tue parole e nei tuoi respiri corti. Dimmelo quando la notte sarà breve e profumata. Quando odorerà di mare e di biscotti caldi. Quando nell'aria ci sarà solo il profumo della nostra giovinezza. Dimmelo quando non avremo più ricordi nè foto. Quando non avremo più pagine da strappare. Dimmelo ora. Qui. In questa notte lunga e bendata. Io non ricordo più cosa fa bene. Non ricordo più la passione. Non ricordo più i giorni del sorriso e della gioia. In fondo anche le mie nuvole sono finte. Non ricordo più... Dimmelo tu cosa fa più male...

lunedì 12 novembre 2012

Imprisoned

La mia pelle ricorda ancora... Sono ritornata in quella casa in un mattino grigio. Quando non ti conoscevo eppure ti sentivo mio. Sapevo che eri nel mio stomaco, nelle mie mani, nelle mie ginocchia. In una casa sconosciuta, ma familiare, in tutte le nostre albe distorte. In tutti quei ricordi ti ho smarrito. In tutto questo dolore e in queste lacrime amare e copiose. Quando ho sentito pezzi di me frantumarsi. Quando ho sentito tutto il rancore depositarsi sul fondo del mio purgatorio interiore. Quando avrei voluto vomitare tutto il mio odio, quando avrei voluto cancellare tutto il mio dolore solo guardandoti. E tutti quei sorrisi? Dove sono adesso? Li abbiamo smarriti in quella strada semi buia. Avevamo un dono, un potere... Avevamo la cura per la nostra infelicità. Quando restavamo svegli nel nostro abbraccio, senza più respiro, senza più gravità nè dignità. Quando ancora eravamo incoscienti e bambini. Quando non c'erano preconcetti. Quando morivamo l'una nell'abbraccio dell'altro. Quando esistevano solo i nostri baci e noi dimentichi di tutto ci perdevamo sull'autostrada della notte. Solitari. Muti. Quando negavamo ogni realtà. Quando sceglievamo le fiamme dell'inferno. Quando non eravamo più due ma uno solo. Quando non c'erano guerre, quando mettevamo da parte noi stessi per un sorriso fugace. Quando ogni cosa era più lieve. Quando galleggiavamo al di sopra di tutto, sospinti dalla musica e dalle nostre giovinezze. Quando siamo rinati da tutte le nostre morti. Quando veniva fuori la tua tenerezza come un uragano devastante. Quando ti ho visto dentro e ho smarrito la strada di me. Quando ho visto i tuoi occhi parlare troppo, senza requie, senza tregua, infelici e lugubri. Quando ti ho riconosciuto tra mille maschere amorfe. Quando gli errori erano soffioni leggeri che sparivano in fretta. Quando i miei piedi toccavano il terreno perchè la strada era diritta, senza alcun ostacolo. Quando le luci del tramonto erano piccoli bagliori lontani. Eravamo così sbagliati eppure così giusti. Eravamo tutto in un nulla sconfinato. Eravamo nella nostra sfera di luce e di buio. Tutti quegli attimi di sospensione dello spazio e del tempo, fuori dalla vita reale. Al di fuori delle nostre lenzuola c'era solo grigiore e nebbia. Fuori c'erano le battaglie combattute da altri, ma noi eravamo su Plutone. Tra i ghiacciai di un amore incerto. Tutti i ricordi mi hanno fatta dimenticare me stessa. Mentre il sole sorgeva io mi rintanavo in quelle lenzuola invisibili. Sotto le coperte dei tuoi sospiri, sotto le tue palpebre serrate. E' arrivato, alla fine, tutto il male, tutto il dolore che temevo. In un giorno di sole, sono morta pur continuando a respirare, pur sentendoti nella pelle, seppur con un cuore a metà, ho continuato a vivere. In tutte le mattine grigie mi sono fermata al di là dei vetri, sotto la volta del dolore più acuto. Ma il dono più grande erano le tue parole che ovunque mi sfioravano l'orecchio. Le tue mani non c'erano, ma sapevo di poterle afferrare nelle notti tetre, meste, infinite... Eri in ogni cosa. Eri e sei sotto la mia pelle. Eri la pelle abbronzata e quella bianca dell'inverno. Eri la mia pelle accaldata. Eri il brivido in piena estate. Eri la pelle delle mani che sfiorava le foglie autunnali cadute sulla panchina di pietra. La pelle che vorrei cambiare, togliere, rivoltare. La pelle di cui vorrei spogliarmi. Vorrei poter guardare sotto, sentire le mie ossa sottili. Vorrei colorarla tutta come una tela. La pelle ha memoria. La pelle ricorda sempre. Se dovessi dimenticarti lei ti ricorderà sempre.

domenica 11 novembre 2012

La mia notte

La notte che ti ha portato via... La notte in cui ho contato i lampioni gialli. La notte disciolta e infinita. La notte scura con la sua trapunta senza stelle. La notte che profuma di asfalto e pioggia. Quando era breve, perchè il sole ci rubava le ore, quando era lieve, quando ci dava ossigeno e tregua. Ora è solo una coltre pesante. Un sudario di pensieri che si rincorrono sotto i bianchi neon. Quando sentivo il tuo peso e i tuoi pensieri. Ogni cosa era dolce. Adesso è solo un triste carnevale. Ora è un ricordo. E i ricordi sono pericolosi, per chi ha ancora sangue, per chi freme e trema nell'attesa di un'alba grigia. Temo la notte eppure l'aspetto come una deliziosa tortura. Fremo e spasimo per le stelle assenti e bugiarde. Aspetto al luna bifronte. Ho abbandonato quella casa, quel tepore, in cambio di una notte inquieta. Di un notte instabile e ondeggiante come i fianchi di una donna. Ti ho visto morire tra le mie mani, come una foglia, come una creatura ultraterrena. Durante la notte traditrice. Quando dormivi nell'incavo della mia spalla, nelle orbite ellittiche che disegnavi sulla mia pelle, nei tuoi silenzi ipnotici, nelle tue menzogne e nei tuoi vuoti. Nei tuoi attimi di sospensione. Nella tua tempesta che cova e minaccia rabbia e dolore antico. Quando potevo sfiorare la tua pelle di straniero. Quando eravamo all'inferno. Dove sono ora le nostre notti? Dove sei? Vorrei attirarti a me con quel filo invisibile che ci lega e ci strazia. Vorrei rivedere i tuoi occhi quando non sapevano di morte. Quando erano limpidi come la mia notte. La mia notte tormentata, fragile, greve, come un diapason. La mia notte illusoria con indosso la sua maschera cieca. E noi, ciechi abbiamo seguito il flusso. Ancora un addio nella notte nemica. Un altro abbandono, un'altra notte di rabbia e lacrime, di cupe emicranie, di gemiti soffocati. La notte lontana. La notte sospesa. La notte delle luci artificiali sul cemento freddo che fugge sotto le ruote, sotto le suole, nelle mie mani, in tutti i respiri. La notte ho paura dei miei pensieri, perchè mi portano in una terra sconsacrata e sconosciuta, dove tutto è appassito. La notte combatto con i miei demoni. La notte sono inferma. La notte resto immobile nel mio busto dipinto, scolpito per il mio corpo e per la mia mente malata. E attendo. Attendo te, nella notte senza fine. Suoi tuoi tasti bianchi e neri. Sulla spiaggia desolata. Sulla riva attraversata dalle onde impietose. Attendo che l'alba porti via il mio male. Attendo tutte le notti. Nell'alone giallo di un lampione solitario. Nel cerchio di quella luce finta. Nella nebbia, nel vuoto permeabile. In questa notte meccanica, distorta altalena del giorno. Ingranaggio guasto. Nel buio che mi artiglia le braccia come un tentacolo, come un ago... Nel nero vuoto cerco le mani gloriose che mi salveranno. Non respiro la notte. Non vedo la notte.

giovedì 8 novembre 2012

Scacco al re

Uno specchio appoggiato alla parete. Nero e coperto di polvere. Quella che si era accumulata negli ultimi 100 anni. Uno squarcio nella parete come una ferita ancora aperta. Le membra attaccate dalla cancrena come un branco di lupi affamati e ululanti. La pelle era diventata carne marcia, ammuffita dalla morte. Allungai la mano attraverso la ferita del muro, verso un'altra dimensione. La ruggine e la calce m'impedivano il passaggio. Le aste d'acciaio che sbucavano dal muro erano taglienti e lucide. Il suono di un pianoforte dall'altra parte. Ero avvolta nel tuo liquido amniotico. Abbandonata, con la mente annebbiata. Ancora sangue. Il sangue tingeva i miei sogni tutte le notti. Volti e mani ricoperti di sangue vecchio e rappreso. Gli ultimi 100 anni erano passati in un attimo, durante il tuo sonno infantile. Sui tuoi occhi serrati, fuliggine e cenere. Sulla tua sepoltura, fiori appassiti e secchi. Il legno era marcito, umido e ridotto in brandelli. I violini erano stati riposti nelle loro custodie, addormentati in quel letargo forzato. Mi spingevo attraverso il muro, cercavo di forzare il mio corpo, come se non avessi consistenza, come se non avessi ossa. Attraversai la penombra della camera da letto, come un morto che cammina tra le tombe silenziose. Fuochi fatui e odore di decomposizione sulle lapidi. Quello era il luogo dei nostri recenti trapassi. E tutto era avvenuto senza una degna sepoltura. I vermi avevano già iniziato la loro opera di smantellamento epidermico. Quello era il mio patibolo. Il letto: assi di legno e corda sciolta. La mia ingenuità mi perseguitava ancora adesso. Cercavo un'altra volta il tuo ordine, il tuo volere di carnefice. Ma questa volta mi sarei distesa nella bara con un sorriso storto. In quel chiaro-scuro soffocante, vidi solo le tue spalle curve e i tuoi occhi non c'erano più. Orbite cave e buie. Eri lì, seduto sul letto, davanti ad una scacchiera d'argento. La tua mente era altrove e tu eri intento a studiare tutte le possibili mosse. Un altro scacco matto al mio cuore? I vermi si agitavano sulla coltre e sulle tende fluttuanti. Ogni cosa era assopita e abbandonata, da quando tu avevi fermato le lancette del tempo. L'aria era stagnante e rarefatta, la mia gola serrata e arida quanto il deserto. I fuochi fatui danzavano davanti al tuo volto di pietra. Non eri più la mia statua greca, ma il mostro a guardia del mio santuario. Un mostro senza più occhi nè cuore. Una belva feroce che non risparmia nessuno. Eri la mia pace e sei diventato il mio tormento, la mia dannazione, la mia ossessione. Ero pronta per giocare ancora una volta? Hai annusato la mia presenza. "Siediti!" hai ringhiato. Ho provato a resistere, ma ho avuto pena dei tuoi occhi vuoti. Hai tenuto per te tutti i pezzi neri. Io ero la regina d'avorio circondata da un esercito di codardi. Attendevi la mia mossa fallace. Sapevi che avrei sbagliato e forse lo sapevo anch'io. Ho provato a giocare, pur non conoscendo le tue regole, senza alcuna speranza, ho scelto liberamente il massacro. SCACCO MATTO! Le tende sono cadute e i vermi dileguati. Con il dorso della mano hai distrutto il mio misero re e hai fatto a pezzi la scacchiera. I pezzi rotolavano sul pavimento in un vortice bianco e nero, mentre noi ci fissavamo come due guerrieri sfiniti. "Inginocchiati!" hai sibilato come un rettile. Avrei voluto gridare, piangere, dentro mi dibattevo come un uccellino in fin di vita. Ma le mie ginocchia risposero al tuo comando di morte, come se avessero avuto vita propria. Tutto il mio corpo prendeva linfa dalla tua voce. "Abbassa il capo. Non hai il diritto di guardarmi. Sono il mostro che si ciberà della tua anima, che si nutrirà del tuo cuore puro". Da quella posizione potevo vedere solo i tuoi piedi immobili. Hai compiuto un mezzo giro attorno a me. Eri dietro di me. Il silenzio era assordante e l'attesa della mia condanna mi faceva tremare. Vidi un riflesso. Una lama di luce che si agitava sulla parete bianca. Un tremolio continuo. Cercai di fermare la mia mente ballerina. Non poteva essere un fuoco fatuo, perchè non vi era nessuna forma di vita in quella stanza. Non sentivo nulla provenire da te. Neanche il più piccolo respiro. Era la tua scure. E tu, il mio boia, eri già morto! Con chi avevo combattuto? Avevo battuto l'altra me. Avevo distrutto la mia parte malsana. Tu non eri più lì. Avevi vinto la tua battaglia. A me non restava altro che il silenzio.

lunedì 5 novembre 2012

Giungla nord

Aveva uno sguardo limpido. Semplice e diretto. A volte un pò imbarazzato, ma tutto sommato "da bravo ragazzo". Un velo di tristezza spesso offuscava quell'azzurro chiaro e rendeva tutto un pò più grigio. Era come il mare. Calmo e placido con orizzonti soleggiati che all'improvviso venivano minacciati dalla tempesta. Una tempesta che covava e che spesso reprimeva. Reprimeva la sua tempesta interna, mangiandosi le unghie. O rigirandosi l'orlo della felpa tra le dita, come fosse un modo per non guardare indietro, al suo passato burrascoso. Era sempre lì, seduto su quella ringhiera del lungomare. Una ringhiera che un tempo doveva essere stata dipinta di verde, ma che ora, la salsedine aveva consumato e rosicchiato. Andava lì con il suo cane. Ascoltava la musica. Prediligeva quella classica, soprattutto nei giorni di pioggia, quando il vento spostava le onde fin sotto gli scogli davanti alla piccola baia. Sedeva lì per ore a guardare il mare. Un mare che conosceva bene e che in fondo era la sola cosa che lo facesse sentire davvero a casa sua. Era alto e aveva spalle larghe e possenti. I capelli biondi, corti, tagliati talmente corti che s'intravedeva lo svolazzo di un tatuaggio uscire dal collo della felpa per insinuarsi fin sotto l'orecchio destro. Ne aveva molti di tatuaggi, ognuno gli ricordava un luogo in cui aveva vissuto, o un'esperienza particolare, una donna, una passione, sua madre, il mare e la morte. Tutto ciò che aveva attraversato la sua vita aveva deciso di ricordarlo per sempre. Per sempre con disegni indelebili e colorati, incisi sulla pelle ambrata. Seduto in quella posizione quasi innaturale e scomoda fissava l'orizzonte, sognando di poter andare via presto e di non tornare mai più. Poi un giorno la vide. Passeggiava sul lungomare, con la testa bassa, le cuffie e le mani dentro le tasche della giacca di pelle. Sembrava un folletto. Il suo passo svelto e deciso, il suo sguardo basso, fisso sulle scarpe colorate. Aveva calze e scarpe rosse. Sembrava uscita da un fumetto. "Non ho mai visto scarpe così colorate" pensò lui. Quella ragazza lo attirava come una calamita. Lo incuriosiva e al tempo stesso gli trasmetteva calma. Una calma che irradiava dal suo passo deciso, ma non isterico. Camminava guardando a terra e rigirava il filo delle cuffie tra le dita della mano destra, portava un cappellino da baseball calcato sui grandi occhiali da sole, colorati anch'essi. Un ciuffo di capelli rosso fuoco spuntava irriverente dal berretto, che lei, con la mano sinistra tentava di ricacciare dentro con malcelata insistenza. Tutto ciò che indossava era molto variopinto, ma il suo sguardo, che s'intravedeva dalle lenti era malinconico, come se in lei ci fosse una tristezza insita. Ormai la vedeva passare di lì tutti i giorni. Per lui era diventato un appuntamento fisso, ma lei sistematicamente sembrava non accorgersi della sua presenza...

martedì 23 ottobre 2012

La glaciazione

In una civiltà ormai sepolta e dimenticata , bagliori di ricordi e ferri roventi stesi sul cemento lucido. Accartocciati sulla strada, nel groviglio di meccanica e vetri infranti sotto un cielo senza stelle. Attraverso la nebbia, dispersi nel silenzio. In un mattino gelido e sgombro di raggi solari. Che cosa hai fatto? Perchè riesco ad odiarti con così tanta ferocia? In quell'alba livida, in tutti i nostri respiri, in tutti quei ricordi inutili, ho detestato il tuo sguardo infelice e i tuoi avambracci sottili, costellati di vene esangui. Ho strappato i capelli a tutte le tue bambole, ho aperto il mio torace con una lama doppia. Ho deciso di farmi ancora più male. Ho strappato quell'organo insulso e fastidioso. E con le mani insanguinate l'ho rinchiuso in una cella frigorifera. Il piacere è stato acuto e immediato. La nebbia ha coperto tutto e il buio ha colorato tutti gli angoli rimasti ancora illuminati. Che cosa hai fatto? Quanto sai essere crudele? Quanto resisti nel torturare le tue vittime? Come un macigno pesi sul mio corpo, togliendomi il respiro. Come una lastra di marmo, come le catene avvinghiate ai miei polsi, come rampicanti velenosi. Quante volte dovrò sfiorare la tua scure? Quanto ancora resisterai, prima d'implorare pietà alla tua creatura? Alla creatura nata dal tuo amore chiederai di porre fine ai tuoi giorni grigi, tutti uguali. Tu, misero mortale, avrai paura della meccanica del mio cuore. Non ho più un cuore fatto di sangue, ma uno fatto d'ingranaggi. Ho spezzato l'incantesimo e ho congelato ogni possibile fiore. Sono la strega che non proverà pietà quando al posto dei tuoi occhi troverà due orbite cave. Sono la gorgone che non ascolterà mai i tuoi gemiti o vile mortale. Umano senza cuore e senza pietà. Hai trasformato la mia dolcezza in carne martoriata e lacrime senza fine. Cosa ne hai fatto dei miei abbracci? Rinchiusi in una cassa e gettati in mare. Ecco cosa ne hai fatto. La tua crudeltà non troverà mai soddisfazione. Non mi è rimasto più nulla. Un cuore congelato, ossa deformate, insensibilità in tutto il mio essere. Sono la meccanica che non funziona. La pendola rotta. Il sogno infranto. Eppure dentro di me, ritrovo piccole lacrime dimenticate. Dove sono i tuoi sguardi ora? Hai paura di guardare il tuo automa congelato e malato? Sono il frutto del tuo amore malsano. Sono tutto ciò che non volevi. Non ho più ali ne cuore... Quante volte mi hai fatto a pezzi? Quanti rimpianti scivolano sul nostro presente... Prova a dirmi chi sei adesso!? Sono il tuo inverno infinito. Sono la tua glaciazione!

venerdì 19 ottobre 2012

Fata Morgana

E' tutta una stupida, effimera illusione. Sei solo il frutto della mia mente deviata e del mio cuore in tumulto. Sei la sabbia del deserto, sei il miraggio, sei l'orizzonte che vibra attraverso la luce ingannatrice. Sei tutto quello che non avrei mai voluto provare in questa vita. Cosa hai fatto Morgana? Ho smarrito i sensi e perso il baricentro. E' colpa del tuo sortilegio d'aria. Sei la mia alba gelida e sei il caldo torrido e la sete insaziabile. Ingannatrice e traditrice. Hai già cambiato la mia visione. Cosa ne è stato del tuo amore, sensuale Messalina? Cosa ne hai fatto del mio cuore? Sei comparsa alle mie spalle e hai continuato ad ingannare il mio orecchio con la tua voce melliflua, hai cambiato volto come i quarti della luna, hai storpiato il mio paradiso. E adesso che non sei qui io mi perdo in questo deserto sconfinato, tra dune di sabbia rossa e nuvole di plastica sospese e stanche. Per un attimo ti ho vista al di là del deserto. Come ho fatto a vedere così lontano? In realtà non ho visto nulla. Era solo uno dei tuoi tanti incantesimi. Stregata dai tuoi occhi, comandata come una marionetta, stretta in una morsa arrugginita dalle tue parole. Non sei più passata dal mio cuore. Non hai più cercato i miei abbracci, ne le mie labbra livide. Non ho più visto quella tua espressione smarrita. Ho visto i tuoi occhi roteare e sono stata in balia della tua furia, nel tuo vento che spinge la sabbia di notte in notte. Dov'è la mia piccola oasi? E' mai esistita? Ho toccato i tuoi capelli come se fossero corde tese e preso le tue mani di fata. Aspetto ancora le tue illusioni. Voglio ancora i tuoi sortilegi demoniaci. Ancora una volta, Morgana, ancora una volta le tue labbra di fuoco. Portami ancora nel tuo mondo, attraverso la sabbia del deserto. Stringimi ancora nelle tue spire mortali. Sono la tua preda e tu il mio miraggio!

lunedì 8 ottobre 2012

Mi ricordo... Non mi ricordo

Mi ricordo di quei fiori di campo, nascosti nello zaino. Di quella casa piccola, circondata dai rumori della città. Mi ricordo delle gite in vespa. Del sole sul viso e delle corse. Della nostra immobilità e del rumore del mare sotto di noi. Mi ricordo del profumo dell'estate, delle corse in bicicletta, dell'aranciata fresca. Delle carezze di mia madre. La spensieratezza, l'odore dei biscotti appena tirati fuori dal forno. Il rumore del pallone sul cemento del cortile. Le grida dei bambini in fondo alla strada. Il gracidare delle rane, le cicale, il caldo torrido e il silenzio delle due del pomeriggio. I tuoi capelli bagnati. Le pietre colorate fra i sassi grigi. La granita al limone e la sciarpa a righe colorate. Mi ricordo del tuo sbadiglio, dei tuoi occhi grandi e della loro tristezza malcelata. Mi ricordo la tua chitarra. Quando cantavi "Michelle" per me. Mi ricordo il tuo sorriso. Mi ricordo dei giovedì piovosi. Mi ricordo della neve e dei pattini sul ghiaccio. Mi ricordo delle orecchie lunghe di Snoopy. Mi ricordo del suo abbaiare e delle tue lacrime. Mi ricordo l'odore del gesso e della lacca. Di tutti i nostri libri scambiati, regalati, restituiti e poi persi. Mi ricordo della musica e delle foto sparse sul pavimento. Mi ricordo delle corse a perdifiato sul lungomare. Dei nostri caffè notturni. Mi ricordo quando eravamo in due sulla bici ed in fondo eravamo uno solo. Mi ricordo di tutti gli abbracci che ho dato e ricevuto. Delle parole che mi hanno fatta piangere. Ricordo come ti liberi degli oggetti che odi. Ricordo come conservi le cose che ami. Ricordo ancora la sua voce che attraversa la spiaggia infuocata per raggiungere il mio orecchio immerso nell'acqua. Mi ricordo il primo tuffo e le nuotate notturne. Ricordo la mia paura in aereo e il tuo prendermi in giro. Ricordo il nostro primo sguardo, circondati da raso rosa e tulle bianco. Ricordo quell'odore aspro e forte, quello dolciastro e lieve. Mi ricordo dei tuoi scherzi. Mi ricordo del bambino che è in te. Mi ricordo dell'odore di sigaretta e del cigno chiuso nella sfera di vetro. Mi ricordo la piega che si creava sul letto quando lei si sedeva accanto a me e faceva quel gesto che solo lei sa fare. Mi toccava la fronte con le labbra. Mi ricordo che non avevo più freddo quando ero immersa in tutto quel rosso. Mi ricordo quando ridevamo. Ricordo quelle strade che non sono nelle nostre città. Mi ricordo quando m'insegnavi a cantare le tue canzoni. Ricordo il tepore. Ricordo il freddo. Ricordo... E ricordo ancora e ancora. Non ricordo più la notte all'aeroporto, quando eri con me, ma in fondo eravamo via l'uno dall'altra anni luce. Non ricordo gli addii. Non ricordo le morti che hanno attraversato questi lunghi anni. Non ricordo la nostra lontananza e il vento che ha spazzato via tutto. Non ricordo mai di essere puntuale. Non ricordo mai di perdonarmi. Non ricordo o forse non voglio più ricordare?

mercoledì 19 settembre 2012

Malebolge

Si guardava allo specchio e non riconosceva quell'estranea. Chi era? Non lo sapeva più. Era crollato il ponte di pietra che conduceva all'altra sponda. Avrebbe dovuto scendere giù, vicino alla frana e nuotare in quella melma putrida. Il viso scavato e stanco. Un corpo giovane, ma troppo magro. Aveva le forme di una donna, ma gli occhi di una bambina. Ingenua, curiosa e impaurita. Le forme erano armoniose, ma avevano tratti molto mascolini; spalle larghe e forti. L'estranea allungò il braccio attraverso la lastra trasparente. Spaventata fece un salto indietro. Chi era? Nell'aria c'era una nuvola di polvere grigia, densa e pregnante. La melma scura lambiva la riva come una lingua viscida e spostava le pietre scheggiate del ponte da una parte all'altra. Rotolavano avanti e indietro nella scura vernice come biglie. Cosa vuoi? Quella donna continuava a fissarla e allungando una mano le sfiorò una spalla. Le conficcò le unghie nella carne scura. Rivoli rosso vermiglio iniziarono a colare sul seno. Allontanò quella mano con un movimento rapido, come se avesse voluto scacciare una mosca fastidiosa. L'aliena uscì dallo specchio e le afferrò i capelli. Erano corti, sottili, ma al tempo stesso doppi come corde. I capelli nelle mani dell'estranea divennero serpenti... Il mare nero avevo sterminato già da tanto tempo qualsiasi forma di vita. Le macerie del ponte riaffioravano a tratti sulla superfice viscida. L'aria era incandescente e soffocante. Era doppia, e oscena. Era tutto claustrofobico come se una lastra d'acciaio costringesse a chinare il capo sotto il suo peso. La donna non era più una donna, ma un uomo. Chi sei? Sono il demone che ti tiene compagnia tutte le notti. Il demone che ha distrutto il ponte, costringendoti a restare per sempre su questa sponda. Il fiume, un tempo, era limpido, contornato di fiori rigogliosi, con colori vividi e odorosi di gioventù. Ho messo in fuga tutte le creature che ti hanno tenuto compagnia. Ho distrutto ogni forma di vita. Ho reso l'acqua che dissetava la tua gola, nella fanghiglia che ora ti nausea. Mi hai cercato tu. Ogni notte, nei tuoi sogni, chiamavi il mio nome. Tu lo chiamavi "Amore" e io non ho potuto resistere a quelle parole. Il tuo paradiso non è mai esistito. Nel momento in cui l'ho distrutto, tu ne hai goduto. E io ti ho amato come nessun uomo è mai stato in grado di farlo. Ti ho fatta mia e ti ho incatenata alla mia infelicità, alla mia roccia. Sei stata il mio Prometeo e hai permesso che ogni giorno divorassi il tuo fegato. Ti ho sollevata tra le braccia e hai permesso che ti legassi ai miei voleri e capricci. L'uomo la fissò per un tempo indefinito. I suoi occhi conoscevano la morte. Si rese conto di aver amato qualcosa che non esiste. Si portò una mano al petto e non sentì nulla. Nessun battito, nessun guizzo. Il fiume di morte, il ponte distrutto, le macerie erano ora la sua nuova dimora. Non ricordava più come fosse il fiume prima della metamorfosi. Al posto del cuore una ferita lunga e poco visibile. Al posto dei capelli serpenti. Le mani sporche di sangue. Guardò l'uomo con una domanda muta sulle labbra. Dov'è il mio cuore? L'uomo aprì una mano e le mostrò il suo cuore in decomposizione. L'aria stagnante lo sgretolò all'istante... Non ne rimase niente, se non una polvere azzurrognola, che l'uomo lasciò andare via. Non aveva più lacrime... Il fiume era morto come lei, come quel suo amore malato. Come tutti i suoi sogni infranti...

martedì 18 settembre 2012

Legami!

Che cosa vedi? Le macerie di un palazzo, illuminate dalla luce gialla di un lampione solitario. Pezzi di intonaco scrostato e rovinato a terra. Cubi di cemento e feritoie arrugginite. Che cosa senti? Nulla. Le macerie hanno invaso tutto lo spazio possibile. E' finito tutto sotto la polvere grigia, sotto la calce, sotto gli schiaffi. Mi hanno aperto il torace e sul petto mi è rimasta una croce di carne marcia. Dimmi ancora che cosa vedi. Una scala di legno rotta e abbandonata all'angolo della strada. La luce gialla è diventata sempre più fioca. Nessun passante, neanche un'ombra. Cosa vedi allo specchio ora? Le mie lacrime, ma questa volta mi hanno rigato il viso di nero. Vedo i miei piedi scalzi camminare su e giù sul pavimento freddo. Le macerie hanno raggiunto anche la mia casa, le mie braccia, il mio cuore. Le mie labbra sono gelide. Al posto della lingua una sottile lastra di ghiaccio. I tuoi schiaffi non hanno più alcun sapore. Le mie mani intorpidite non riescono più a raggiungere il tuo viso. E' tutto così lontano. Alieno e perduto. Il palazzo è stato abbandonato, perchè come il cuore è diventato pericolante. E' una caverna vuota e fredda. Il sangue è fuggito via tutto. Al suo posto c'è solo ruggine e vernice nera. Quanto tempo sono rimasta lì? Legata ai tuoi abbandoni, ai tuoi addii, alle sbarre della mia prigione... Quante volte ancora abbasserò la testa di fronte al tuo ordine? Quante volte ancora resterò su quelle macerie, illuminata dalla gialla luce della notte liquida, cullata dalle tue parole, senza poterti toccare. Cercavo i miei sogni e ho trovato il dolore. Cercavo un sorriso e ho trovato solo lacrime. Cercavo la felicità e ho trovato la mia bara di ghiaccio. Che sapore hanno ora le tue lacrime? Il sapore del cianuro!

domenica 16 settembre 2012

Marry me or...bury me?

Abbiamo scelto di accessoriare il nostro abito da sposa o la nostra bara? Pizzo, satin o semplice raso? Non c'è molta differenza in fondo. Se apparecchiamo il nostro letto come se fosse la tavola di capodanno, alla fine del viaggio agghindiamo anche la nostra bara di morbido satin rosa. Tutto sommato non c'è molta differenza fra le due cose. Matrimoniando qua e là ho scoperto che si hanno più possibilità di incontrare il principe azzurro alle cerimonie funebri che ai ricevimenti nuziali. Del resto in entrambe le situazioni l'ipocrisia è elevata all'ennesima potenza. Mai di bianco alle cerimonie nuziali e sempre il nero a quelle funebri. Siamo davvero esseri soprannaturali a volte. Ma il matrimonio non dovrebbe essere una faccenda privata? Invece ci facciamo prendere la mano e da bravi attori scegliamo il miglior teatro possibile. Recitiamo già tutti i giorni, ma quel giorno siamo candidati al premio oscar. Miglior abito di scena, miglior interpretazione, etc... Per non parlare degli invitati. Una fiera da circo sarebbe meno colorita. Fuxia, giallo ,turchese, ma che fine hanno fatto i colori da cerimonia? Il classico grigio per esempio? Trucco, borsa e abito degni della peggior Dita Von Teese. Incredibile, ma come fanno le persone a prendere la magica decisione? In tempi così liquidi come si può scegliere il matrimonio? Forse è solo un modo per superare un momento di imbarazzante silenzio? Quando la coppia non ha più niente da dirsi, ad un tratto lui e lei decidono di sposarsi, così avranno qualcosa di cui parlare per tutta la vita. E gli invitati qualcosa di cui s-parlare per tutta la vita. Ma del resto, noi invitati, quando saremo mai contenti? Mi sa che preferisco ancora i funerali. Da domani presterò attenzione a tutti i necrologi degni di nota. Ma in fondo preferisco l'odore della pioggia e un thè caldo allo stress delle partecipazioni su carta d'amalfi. Preferisco accoccolarmi sul divano e gustarmi il mio gelato alla granella di litio. Siamo sempre alla ricerca del grande amore? O alla ricerca dei grandi amanti? Sposami o seppelliscimi? E' la stessa cosa in realtà. La firma sul contratto è simile ad una condanna a morte. Ma noi siamo coscienti della tragica situazione? Oppure in ginocchio davanti alla ghigliottina decidiamo volontariamente di slacciarci il colletto? Troppe possibilità concesse, troppi risentimenti, troppi dolci e troppi confetti. Finiremo grasse e depresse in compagnia del nostro prossimo compagno di loculo? Io scelgo un bell'abito nero come la notte corredato di rose rosso sangue. Non credo nei legami, non credo nei matrimoni, non credo nel satin nè nel raso. In fondo noi donne moderne non abbiamo nulla di virginale, perciò perchè infilarsi nell'abito bianco solo per mostrare al mondo che abbiamo accalappiato il solo esemplare maschio? Riesco a sentire ancora le mascelle degli invitati che masticano gamberetti e battute al vetriolo sui due poveri condannati a morte. Che ironia se penso che quando gli sposi attraversano la navata, sembra che si dirigano al patibolo con il sorriso stampato sui loro terrei volti. Se prima ci si sposava per esigenze di vita, perchè lo facciamo ancora oggi? E' un contratto a sancire realmente l'amore tra due persone? E se c'è davvero l'amore ed è una faccenda privata perchè vogliamo a tutti i costi condividerlo con 200 invitati affamati? Meglio giocare a scacchi con la signora con la falce. Preferisco restare a guardare il corteo delle damigelle che invidiano la prima attrice. In fondo è molto più divertente avere idee ciniche e mettere in imbarazzo qualche invitato. Se "finchè morte non vi separi" porta soldi a fiorai, fotografi e sarti ancora crediamo alla favola di Cenerentola? Io credo ad una bara accessoriata di tutti i comfort, tv via cavo, cappuccino e sigarette. In fondo chi l'ha detto che il vero amore dura tutta la vita? Non è valida la frase "finchè morte non vi separi" ma piuttosto "finchè uno dei due non seppellisce l'altro...vivo".

domenica 9 settembre 2012

La mela

Vorrei non avere passato. Vorrei dimenticare. Vorrei distruggere tutto ció che mi tiene ancorata ad un passato oscuro. Vorrei fidarmi del tuo abbraccio. Vedo tutto il mondo in macrovision. Tutto si muove, ma le mie gambe restano immobili. Come un bellissimo incantesimo, vorrei non infrangerlo. Ho deciso di ucciderti con ferocia, come il mio peggior nemico, vorrei chiudere per sempre i tuoi occhi che sanno di morte. Vorrei dimenticarmi del mio senso d'impotenza. Sei ancora lì? Morfeo è fuggito già da un pó. E io affido i miei pensieri alla notte. Forse domani arriverà il giorno. Splenderá il sole e io saró tua. Avró ancora gli occhi tristi? Aspetto ancora la mia esecuzione? Non piû. Aspetto te. Ti aspetto da sempre. La mia mela... Quella senza il verme.

giovedì 6 settembre 2012

Da 0 a 10


Numeri... Numeri... Numeri...
Tutta una vita di numeri. Siamo costantemente sotto esame, anche quando non ce ne rendiamo conto? Ad ogni nostra azione, un'invisibile giuria è lì pronta ad alzare la paletta con il numerino magico?
Incredibile. Persone che normalmente non sono in grado di ordinare un caffè al bar, si ergono a giudici.
Quanto sei bello. Quanto sei intelligente. Quanto sei bravo. E via dicendo.
In un vortice di azioni più o meno discutibili, siamo soppesati come carne al macello, controllati, studiati, etichettati ed infine giudicati, catalogati e numerati ovviamente.
Quanto sono interessante da 0 a 10?
Ai posteri l'ardua sentenza, disse qualcuno.
La cosa che più mi sconvolge è che veniamo giudicati per ogni cosa. Ma orrore, orrore, veniamo giudicati anche per come siamo a letto?
Da 0 a 10, quanto vale la mia ultima prestazione sessuale?
Che incubo! Un giorno potremmo scoprire per caso che il nostro partner di una vita ci considerava una sogliola e non la femme fatale che avevamo immaginato.
E se per comprare il salame, prendiamo il famoso numerino alla cassa, dobbiamo munirci del numerino anche alla cassa veloce del sentimento?
Con la mia fortuna, mi sa che mi ritroverò a fare la fila alla cassa veloce, quando invece ho solo due stupidissime mele nel cestino e sistematicamente verrò cacciata fuori dal supermercato.
Cuore e numeri non si sposano bene. Se il cuore è la sede dei sentimenti allora la testa è la sede dei numeri che come una pendola mortale, stabiliscono ogni attimo della nostra vita.
Ma io la penso di più come gli antichi egizi, sono fermamente convinta che la sede dei sentimenti sia lo stomaco. Se soffri non riesci a mangiare, se sei felice senti le farfalle nella pancia. E allora cosa c'entra il cuore? Tutto ciò che ha che fare con i sentimenti è primordiale, atavico e fisico. I numeri, invece, non sono fisici, sono materia grigia, ragionamento. E se il sangue attraversa il cuore e poi di lì tutto il corpo, effettivamente è un qualcosa di molto più vitale. Il sangue circola dovunque e porta la vita. La materia grigia è un qualcosa di statico. Una massa gelatinosa che sta lì ferma a pensicchiare. Decisamente 10 al sangue e 0 al cervello.
Quindi se in ogni momento veniamo giudicati, a nostra insaputa, abbiamo ancora da studiare? Non siamo preparati per l'esame finale, se mai ce ne sarà uno. Non abbiamo il libro di testo e non sappiamo come fare per prendere il famoso 10. Forse accade tutto questo perchè in fondo ci comportiamo come noi stessi. E da bravi esseri umani sbagliamo e perseveriamo nei tragici errori che segneranno la nostra vita per sempre.
Meglio essere se stessi o fingere?
Un dubbio amletico, al quale non darò mai una risposta.
"Mi piaci tanto come persona, ma hai qualche piccolo difetto che m'impedisce di vedere al di là del mio naso" questo equivale ad un 3? Siamo ancora insufficienti.
Fin dall'asilo c'insegnano a fare del nostro meglio. La nostra carriera scolastica è costellata di voti e giudizi.
"L'allievo s'impegna, ma potrebbe fare di più." che cavolo vuol dire? In fondo tutto e niente.
Ok. Non sarò l'alunno perfetto, ma se riesco ad impegnarmi, potresti, maledizione, suggerirmi come fare per migliorare, invece di sparare sentenze senza costrutto e farmi vivere con i complessi per tutto il resto della mia vita?
Preferisco uno 0 piuttosto che un 5. La mediocrità è come la terra di mezzo, in fondo nessuno ha ancora capito dov'è (forse non lo sapeva neanche Tolkien). Sei troppo poco intelligente per prendere una sufficienza e sei troppo poco ciuccio per essere insufficiente.
Dopo le scuole dell'obbligo veniamo catapultati nel mondo universitario. E lì è davvero un circo, che neanche Moira Orfei saprebbe mettere in piedi. Un 18 ti abbassa la media, ma in fondo dimostra che hai studiato, e un 30 con la lode dimostra che sei un genio. Arrivati alla tanto agognata laurea, mi chiedo se tutta la galleria di 30 che ci portiamo dietro ci faranno essere dei bravi professori a nostra volta, se potremmo costruire un palazzo senza vederlo crollare dopo 5 minuti e se arredando una casa ci dimenticheremo del cassetto delle posate in cucina. No. Effettivamente non servono a niente tutti quei 30.
La vita è decisamente un'altra cosa. Persone che neanche conosci regalano 4 senza averti mai guardato negli occhi. Perchè i parametri di giudizio, in fondo, ognuno se li crea da sè, nel proprio intimo. E allora a cosa è servito impegnarci in qualcosa che non ci assicura nulla? Una carriera scolastica costellata di buoni voti e buone intenzioni non ci faranno da paracadute quando verremo bocciati, senza appello, dal bastardo di turno. Non ci salverà neanche da noi stessi, quando dietro ci porteremo quegli orribili 2 e 3 come un fardello difficile da eliminare.
I numeri in fondo non fanno altro che etichettarci, come il bestiame, come i deportati, come l'orologio che inesorabile ci ricorda lo scorrere del tempo.
Preferisco non pensarci. E' molto probabile che la mia lista di insufficienze stia per uscire fuori dal rigo.
Tutto sommato se sono stata bocciata, forse non è perchè non ho studiato, ma perchè mi hanno interrogata sul programma sbagliato. Ho studiato sentimento e mi hanno chiesto matematica quantistica.
Ho dato il cuore e in cambio ho avuto la ricevuta fiscale. Un misero scontrino. Una partita doppia con pesanti debiti a mio carico. Non ho vinto la guerra e in più mi sono rimasti tutti i conti da pagare.
Da 0 a 10 quanto vale l'amore?
Quasi sempre 0.
Facendo un pò di calcoli se l'amore vale 0 e il dolore quasi sempre 10 mi è rimasto solo il laccio emostatico da legare al cuore (o allo stomaco) e tirare sempre di più.
Mi conviene tirare più forte. Sempre di più.
Da 0 a 10 quanto vale il mio amore?
N.C. = Non Classificato

domenica 2 settembre 2012

Besame Giuda!


Siamo tutte mediamente isteriche, esaurite, pretenziose, bigotte, ingenue, infantili, puttane e sante.
Conosco gli scopi indegni degli uomini come tante mie altre colleghe.
A cosa serve fare tutto per amore se non c'è mai una ricompensa?
Dove ci porterà il nostro amore incondizionato se dopo tanto tempo riceviamo solo una banalissima riconoscenza? Si prova riconoscenza per il ragazzo che ci porta la spesa a casa o l'amica che ci sopporta in un momento di debolezza. E' impensabile che il grande amore della nostra vita provi riconoscenza dopo che abbiamo svenduto il cuore al mercato delle pulci pur di farlo giocare con le macchinine.
Come un bambino cocciuto e viziato lo abbiamo allevato fino ad ottenere il suo nome sull' invito all'ennesimo funesto matrimonio, invece dell'anonimo +1 che ci ha accompagnate per tutta una vita. Abbiamo subito raggiri e tradimenti, ci siamo coricate accanto alla serpe strisciante, abbiamo creduto che il moccioso avesse bisogno di svago e come la miglior equilibrista del circo Orfei ci siamo messe a passeggiare sulla corda tesa, fingendo di non aver paura dell'altezza vertiginosa. Per amore, solo per amore. Abbiamo cambiato modo di pensare pur di piacere ad un uomo che sistematicamente ha tramato alle nostre spalle. Si dice che l'esperienza sia una grande maestra. Io non lo credo più. Eh si... perchè continuiamo a sbagliare, a fidarci del Giuda di turno che bacia le nostre membra assopite. Quando finalmente riusciremo a fare tesoro di tutte queste esperienze? Quando finalmente saremo capaci di ripagare il verme con la stessa moneta? Forse per noi socie del club "Sesso debole" è geneticamente difficoltoso diventare codarde e bugiarde, non voglio dire che non ci siano tali esemplari, ma solo che noi abbiamo bisogno di dire che siamo innamorate, abbiamo bisogno di chiamare le cose con il loro nome e di dare sfogo al nostro animo vittoriano, ormai sepolto. In un classico triangolo la donna resiste poco e quasi sempre nel giro di qualche mese mette le carte in tavola; l'uomo, invece, come il più grande giocatore di poker vivente, riesce a bluffare per anni. Questo è sintomatico del fatto che per gli uomini è molto più comodo tenere i piedi in più scarpe.
Perchè dopo anni di lotte e battaglie, ancora oggi gli uomini che inseguono una gonnella dietro l'altra vengono chiamati Casanova o Don Giovanni, nomi che richiamano nell'immaginario collettivo uomini che scavalcano balconi per passare una notte d'amore con la donna di un altro; mentre all'alter ego femminile vengono affibbiati epiteti ben poco romantici o cavallereschi?
Eva indusse Adamo a peccare, la Maddalena era una prostituta, Elena di Troia fece scoppiare una guerra, Messalina, Maria Antonietta, Anna Bolena e via dicendo...
Tutte donne discutibili sicuramente, ma senza dubbio affascinanti.
Immagino Casanova che si toglie la parrucca incipriata, il pantacollant e il neo finto per conquistare la sua ultima vittima. L'immagine è senza dubbio comica. Direi grottesca.
Ma sono anche convinta che tutte queste donne abbiano dovuto sopportare i continui tradimenti dei loro compagni, perciò tutto sommato, giustificate.
Chi mai sopporterebbe un Enrico VIII grasso e presuntuoso che ogni sera ti guarda con occhi maliziosi?
La posta in gioco è alta (perdere la testa e non in senso letterale, credo sia quanto meno doloroso), ma al posto di Anna Bolena, chiunque si procurerebbe 10 amanti.
Se in un noto film, Totò accendeva candele davanti al ritratto del famoso barbablù francese Landrù, noi donne, chi dovremmo venerare?
Ma la storia non insegna niente e noi da brave recidive ci diamo al prossimo Giuda che ci conquista con false promesse e falsi sorrisi.
Perseveriamo a farci tagliare la testa ogni volta.
Mi piace pensare ad un capovolgimento dei ruoli. Ad una donna che si comporti esattamente come un uomo.
Forse sta già accadendo!
Non dovremmo più baciare Giuda, ma tirare fuori dalla nostra borsetta una di quelle pistole piccole, ma letali. Dovremmo imparare a giocare al loro stesso gioco perverso.
Sono sicura che l'amore vero è un altro (se esiste). E forse dopo un certo numero di Giuda arriverà quello che non saremo costrette a soffocare con il cuscino, quello che baceremo con entrambi gli occhi chiusi. Quello che ci amerà anche durante le nostre fasi isteriche.
Sopportare Giuda ci ha sicuramente fortificate e adesso siamo cresciute, siamo più scaltre e siamo in grado di riconoscere tutti i sintomi del traditore, siamo capaci di ucciderlo in diversi modi e se non dovesse bastare il cianuro possiamo sempre seppellirlo sotto il peso della nostra biancheria intima.



mercoledì 29 agosto 2012

Il monopoli dell'inquietudine



L’inquietudine è spesso come un martello pneumatico che ti scava un buco nel petto. Tutte le notti. Tutta la notte. Senti il peso come nessun altro e in un modo che non sempre è comprensibile alla maggior parte delle persone. Come si può ingannare il dolore? Quel dolore sconosciuto e allo stesso tempo amico fraterno. La notte striscia sotto la porta e tu sei lì abbracciato al tuo tormento quotidiano, non puoi liberartene, non sai come chiuderlo nella stanza della punizione e a volte non puoi farne a meno. Allora mi chiedo se davvero, noi inquieti notturni, siamo in fondo capaci di trovare la tanto agognata serenità. Forse no. In  verità non sappiamo apprezzare la bellezza delle piccole cose, dei piccoli gesti, di tutte quelle cose che ti danno la certezza che tutto sommato non siamo soli al mondo. In un mondo dove si combatte a colpi di mouse e hardisk cosa ci aspettiamo di trovare dall’altra parte della barricata? Quando finalmente avremo conquistato il territorio nemico cosa pensiamo di trovare? Di certo non un tesoro raro, perché se anche avessimo gli stivali delle 7 leghe, la nostra maledetta inquietudine sarebbe sempre lì a tenerci compagnia. Un volto, un gesto, un’espressione. La memoria è in fondo una pessima abitudine. Dovremmo avere la facoltà di poter dimenticare presto, di cancellare, di resettare ogni cosa. Si dovrebbe fare come per le memorie esterne, una volta scollegato il cavo, la memoria non ha nessuna funzione. Come sarebbe bello trovare il tasto di accensione e tenerlo su off ogni volta che se ne sente il bisogno. Perché si ha sempre l’impressione di essere ancora fermi al punto di partenza? Che cosa ci blocca in fondo? Cosa non ci permette di rialzarci e ripartire? Siamo noi ad aver inchiodato i nostri piedi sulla striscia di partenza o siamo andati in prigione senza passare dal via? Abbiamo ancora la facoltà di scegliere la carta dal mazzo delle probabilità e da quello degli imprevisti. Le sorti del gioco non sono ancora ben definite. Da bambini il massimo del divertimento era comprarsi Parco della Vittoria, dopo infinite ipoteche, prestiti e imbrogli vari, finalmente il cartoncino viola era nelle nostre mani. Che gioia! Ma cosa accadeva inevitabilmente dopo? Nulla, assolutamente nulla. Eh si, perché il destino avverso decideva, con un sinistro senso dell’umorismo, di non farci transitare mai nessuno sopra e noi passavamo il nostro turno nella triste prigione della città. In conclusione dovevamo vendere tutto, ipotecare ciò che avevamo conquistato lottando con le unghie e con i denti. Con il senno di poi mi chiedo se in fondo non era meglio accontentarsi di Corso Magellano o Vicolo corto. Si guadagnava di più, perché ci si fermavano tutti una volta o l’altra e si spendeva di meno nell’acquistarlo. Gli inquieti non sanno mai accontentarsi. Puntano sempre troppo in alto e immancabilmente restano delusi. Non c’è alcun rifugio, ne infermeria da campo per le vittime di guerra del proprio male. Siamo gli invalidi senza il parcheggio riservato, siamo i moribondi in grado di camminare, siamo il nostro stesso male, siamo il nostro peggior nemico. Siamo la nostra tortura. Mi rendo conto che io vivo su un pianeta con assenza di gravità e tutti gli altri stranieri che popolano questo pianeta, giustamente, mi guardano di traverso. Effettivamente qui la gravità c’è eccome. Ma perché io non riesco a poggiare i piedi per terra? Perdo troppo tempo a trovare una soluzione alle mie mancanze. E il perdere tempo fa passare in secondo piano le cose davvero importanti. Come quelle piccole cose di cui parlavo sopra. Un tramonto che non tutti hanno la possibilità di vedere, il sorriso di un amico sincero, un thè caldo e una coperta quando fuori fa freddo, gli occhi innamorati del proprio cane. Qualcuno che ci ama davvero, ma che noi non siamo in grado di vedere, perché stiamo decidendo se aprire la porta per la dimensione parallela più vicina. Gli incantesimi si avverano tutti i giorni, proprio sotto i nostri sensi intorpiditi. Vorrei davvero aprire gli occhi se sapessi come. Mi acciambello vicino al mio serpente. Viscido e strisciante è pur sempre una certezza in questo mare d’incertezze. I miei sensi sono tesi al massimo. Buonanotte miei dolci mostri inquieti.

venerdì 10 agosto 2012

Il sonno


Il sonno ha portato via tutte le nostre paure e le nostre ansie.
Ti sei abbandonato nel mio abbraccio come una foglia che si affida al vento.
Hai chiuso gli occhi attirandomi nelle tue mani, come se fossi fatta di creta.
Il respiro intermittente e debole, le gambe avvinghiate ai miei rami.
Sei sempre il mio porto sicuro, la mia isola, la mia dimora infestata dai fantasmi.
Sei l'indecisione scandita dal tuo orologio funesto.
Sei la cicatrice profonda che non rimargina mai.
Il buio ha lasciato spazio ai nostri monologhi silenziosi eppure udibili ad orecchio umano.
Come una statua, immobile e bianca hai dormito sul mio grembo.
Ho accarezzato i tuoi serpenti, le tue mani, le tue paure ataviche.
Silenzio e buio e odore di cenere attorno a noi.
L'aria rarefatta e finta ci avvolgeva in un ricordo.
Un sogno avvolto nell'aria tersa del mattino.
Il tuo digrignare i denti come belva feroce.
La tua agitazione, le tue parole, i tuoi lamenti, la tua pelle addormentata.
Non ricordi?
Hai aperto i tuoi occhi di statua e li hai richiusi, lasciandoti cullare dalla pace.
Ti ho fissato per un tempo indefinito.
Ho avuto paura, non ti ho riconosciuto eppure eri mio.
Come le foglie, come il vento, come il sole dorato.
Come la paura che mi prende ogni volta che vai via.
Siamo legati da un elastico invisibile, lo tendiamo e subito dopo siamo l'una nell'altro.
Ci fagocitiamo attraverso la pelle, attraverso gli occhi e le mani.
Intrappolati in un disegno mai completato.
Sento il tuo dolore con le mani.
Senti le mie paure con il respiro.
Lontano, ma in fondo accanto a me. Sempre.
Sei ancora lì?
In quel sonno profondo e placido, ancorato alle mie gambe...
Siamo ancora lì, nell'alba grigia di un fumetto.
Nelle pieghe del letto, nelle spire del fumo,
nel nostro essere statue di ghiaccio che si sciolgono al primo raggio di sole.

100 anni di rabbia


C'è posta per te!
Magiche paroline per noi poveri cybernauti ancorati a questa triste realtà, fatta di notifiche, messaggi, e-mail e tutto ciò che ci mette in contatto con l'intero globo terra-acqueo.
Un'altra sigaretta si consuma da sola nel posacenere... Nuvole grigie di fumo si dissolvono nel buio.
Pensavo alla fragilità umana e al suo giusto contrappeso, la forza. Siamo capaci di tirare un bus con la forza della disperazione e ci facciamo abbattere da un movimento impercettibile come le ali di una farfalla.
Ma cosa inseguiamo in fondo? L'amore? Il successo? La fama e la gloria?
Ma esistono davvero tutte queste cose?
Non ne sono più tanto convinta ormai da tempo.
Un altro beep e subito sentiamo la marcia nuziale diffondersi nell'aria.
Abbiamo scambiato i rapporti usa e getta per i veri sentimenti?
Un altro messaggio in arrivo e subito immaginiamo di essere diventati i re dell'universo.
Come vampiri o zombies ormai andiamo a fare la spesa alla salumeria sotto casa, con il cellulare attaccato alle nostre nocche, il dito pronto sulla linea di partenza. "Un etto di cotto grazie" e intanto digitiamo parole senza senso allo sconosciuto di turno.
Ma cosa è accaduto da quando Rossella O'Hara inseguiva il suo Ashley?
Si sono invertiti i ruoli e insieme alla parità dei sessi abbiamo ottenuto il libero accesso al libertinaggio senza pudore. Merletti e crinoline farebbero ridere, ma in fondo sogniamo ancora il bacio che ci risveglierà dal nostro sonno eterno.
Da brava lettrice quale sono mi rendo conto che in fondo i buoni sentimenti vendono ancora, se poi sono infarciti di qualche dettaglio "pruriginoso" è ancora meglio.
50 Sfumature di grigio spopola nelle librerie e negli scaffali degli autogrill insieme a Conan Doyle e pochi altri.
L'ho letto, incuriosita da tanta popolarità e devo dire che ne sono rimasta disgustata.
Ma noi giovani donne del nuovo millennio ancora sogniamo il principe azzurro? Che poi di azzurro non ha proprio niente. Scritto con sapiente banalità la storia avvince il lettore, che spera in qualche pagina piccante e invece si ritrova davanti alla più banale storia d'amore che si sia mai vista. Lui, lei, contrastati da qualche misero problema fino a giungere al tanto agognato "...e vissero felici e contenti".
Tutti questi anni di lotte, proteste, letture "emancipate" e siamo in fondo rimaste ancora al punto di partenza.
Sono semplicemente senza parole.
"Fenomeno editoriale" se sento di nuovo queste parole, vomito all'istante.
Si dice che dalla storia si impara sempre, in realtà credo che la storia non ci insegni proprio niente; in fondo ci sono sempre i corsi e ricorsi storici. Se le crinoline non fanno più tendenza anche Orgoglio e pregiudizio dovrebbe essere ormai desueto, invece cosa succede? Le scrittrici di oggi ci vendono un classico dell'800 in salsa moderna. Se Edward Rochester ci ha fatto battere il cuore al ritmo della sapiente scrittura della Bronte, non potevamo non essere affascinate da Edwad Cullen di Twilight. Orrore, orrore, la scrittrice non ha neanche un pò di fantasia. E come il protagonista di 50 sfumature di grigio che si rifà a tutti gli antieroi della letteratura classica. Noi siamo lì ad aspettare la magica conversione del protagonista, da terribile antieroe nero a principe azzurro sul cavallo bianco. Ma che schifo!
Eccoci lì, sognanti con un sorriso ebete stampato sul viso, ad aspettare il nostro principe azzurro post-moderno. Siamo così puerili? Dov'è finita la buona letteratura?
Quella che purtroppo non diventa un fenomeno editoriale, quella che ti cattura con un lessico ricercato, la letteratura che fa sapienti giri e ti strappa il cuore dal petto...
Mi sa che mi sono svegliata nel secolo sbagliato. Posso imprecare? Meglio di no.
I rapporti umani sono diventati sempre più difficili e forse in un momento storico abbastanza difficile, in fondo abbiamo bisogno dell'happy end, che purtroppo non arriva mai, nè mai lo farà.
Ho smesso di sognare il principe azzurro, sogno solo un bel fucile a canne mozze da puntare su tutte quelle persone che infastidiscono il mio piccolo mondo antico.
Non voglio l'uomo che mi porti le rose, non sogno l'anello, nè l'abito bianco.
Non voglio l'uomo che mi salvi (tremendo concetto da non formulare mai nemmeno a se stessi dopo i 30 anni), nè attenzioni stupide. Non voglio più beep che disturbino la mia mente altalenante.
Mi fanno schifo i buonisti e gli happy end, se sogno ad occhi aperti leggendo Romeo e Giulietta è perchè non c'è alcun lieto fine. I miei occhi non sono proprietà di nessuno, nè le mie braccia, ma soprattutto il mio cuore è terra di nessuno.
La mia realtà non è quella di tutti, vivo in un mondo dove principi e principesse non ci sono più e ne sono contenta. Ho scambiato le fate per un paio di manette. Legherei ad una sedia tutti quelli che vorrebbero catturarmi e la mia vendetta non avrebbe alcun "dolce sapore".
Non chiedo di essere compresa, in fondo non me ne frega niente del parere altrui.
Chiedo solo un pò di pace, un pò di serenità, un porto sicuro dove spegnere il cellulare e leggere 100 anni di solitudine. Nella mia pace notturna, in compagnia del mio corvo, quello che sorveglia ogni mio movimento.
Faccio tutto questo con il fucile carico, accanto a me.
Le manette le ho preparate.
Attenti. La mia vendetta sta per compiersi.
Sono un mostro e fiera di esserlo.