mercoledì 28 novembre 2012

Lo specchio (4kg)

Mi stringevo nel maglione rosso di due taglie più grande. Non avevo più nulla da dire. Tutto era svanito in un attimo. Anche i miei ultimi 4 kg. Quei miseri 4 kg che segnavano il confine della mia follia in un corpo già esile. Un corpo che un tempo consideravo sacro e che ora torturavo giorno dopo giorno. La mia pelle aveva già perso la sua lucentezza. E le ossa, ora, in perfetta evidenza, segnavano il limite assoluto della mia perduta stabilità. Non provavo alcun rimpianto guardando allo specchio quel triste figurino. Non ero più una donna e non ero neanche un uomo. Ero un ragazzino efebico, senza più cuore né arterie. I capelli sembravano fili sottili, senza più spessore. Aridi. I miei piedi erano come le zampe di un corvo. La mia espressione, incerta e smarrita. Tutto in me era svanito. I miei sorrisi erano in quei pochi grammi dispersi. Cercai di stringere quel maglione logoro attorno alle mie ossa, per farlo aderire. Accennai un sorriso allo specchio nemico, ma sembrò la smorfia di un pagliaccio stanco. Due solchi violacei disegnavano ombre sotto i miei occhi, il naso era diventato la punta acuminata di una freccia. Le mani erano scomparse nelle pieghe delle lana rossa. Spuntavano solo le ginocchia. Ossute e stanche. La pelle tesa e increspata da piccole fenditure, mi faceva sembrare una vecchia bambola impolverata. Ero come la bambola dimenticata in soffitta, attaccata dalla polvere, con i capelli rosicchiati dai vermi. Continuai a fissarmi allo specchio, alla ricerca di un barlume di vita. Ma nulla in me faceva pensare al vigore della giovinezza. Ero diventata il presagio di morte di me stessa. Ero l’attesa. L’attesa spasmodica della conclusione. Ero quell’attesa che simboleggiava il mio male, il mio supplizio, le mie lacrime. Quando sarebbe arrivata la fine che tanto bramavo? Lo specchio mi rimandava un’immagine bloccata in un torpore costante, in un’inerzia sicura che mi cullava come se fossi una neonata. In rari momenti fugaci i miei occhi apparivano risoluti, ma quegli attimi svanivano sempre troppo presto. Cercai la matita nera, nel caos primordiale che mi circondava. Se truccassi i miei occhi... Cambierebbe il mio sguardo? Sarebbe forse più normale? Ma quando sono stata veramente normale? Ormai non lo ricordavo più. Forse da bambina, quando preservavo le mie ginocchia dalle sbucciature. Ora preservavo il mio cuore dai colpi fatali della vita. E custodivo gelosamente il mio segreto. Non sanguinava visibilmente il mio corpo, ma si contorceva tra gli spasmi, bruciava nel fuoco invisibile che era dentro me. La mia mano, ora esitava, a metà strada tra l’occhio destro e la fronte. Come si trucca una bambola? Come si dipinge il viso di una persona quasi defunta? Portai le mani al petto facendo pressione. Batteva ancora! Frustrazione! Come avrei potuto cavarmelo dal torace? Senza sentire dolore e senza anestesia. Senza perdere né sangue né tempo. Non avevo più unghie per intaccare la mia pelle diafana. Continuai a fare pressione. Avrei trovato il modo. Dovevo farlo! Senza cuore, mi tormentavo in quel gelido mattino. Dov'era finita la mia carne?

domenica 25 novembre 2012

Untitled

Per desolate strade abbiamo camminato... Per quanto tempo? Ho sentito sulla nuca il freddo metallo. La canna della pistola non mi ha terrorizzata quanto i tuoi modi, quanto i tuoi occhi freddi, quanto le tue parole sospese. Dentro un giorno sempre uguale. Senza più sole, invasi dalle polveri sottili, affogati dal cemento armato, soffocati nelle metropoli aliene. Quanti ricatti ancora dovrò subire? Mi sento sconfitta, perché mi sono arresa troppo presto e troppo facilmente. La nostra mente diabolica e il nostro gioco perverso, ha fatto un'altra vittima. L'ennesima vittima del nostro atroce sistema. Sul palco, cantavi la nenia mortale. Ho aspettato che della tua vittima ne facessi mattanza per il nostro oscuro piacere. A cosa è servito tutto questo dolore? Noi ne siamo usciti più forti e più uniti, ma la nostra vittima è lì, sull'altare e gronda sangue. Del suo sangue sono ancora intrise le nostre mani. E per queste strade, hai stretto forte le mie mani. Non dire nulla, io ho capito. Ho capito che nonostante tutto il male che siamo capace d'infliggerci, ci ritroveremo sempre. Non voglio lasciarti affondare. Non voglio vederti annegare. Sulle note di quella chitarra lamentosa, quante volte ho cantato? Ti ho odiato così tante volte e così ferocemente che non ne ricordo più il motivo. Mi hai condotto per strade sconosciute e strane. Mi sono estraniata da tutto e tutti. Ho trovato il senso di me stessa dentro i tuoi letali abbracci. Com'è strano, aspettarti ancora. Come la prima volta. Come tutte le altre, dopo. Ricordi la prima volta che mi hai guardata negli occhi? Quando hai capito che io non sarei stata la tua prossima vittima, quando hai capito che io ero esattamente come te. Ero come il tuo sangue. Ero come la tua carne. Ero io la tua perversione più grande. Corpi. Corpo. Carne. Sangue. Allucinazioni oniriche. Mi vuoi viva o morta? Nella luce grigia di un mattino piovoso, ho trovato la nuova sceneggiatura. Quella che mi permetterà di girare il prossimo film...

domenica 18 novembre 2012

Nuvole bianche

Dimmelo tu cosa fa male! Quando dormi senza farlo davvero. Quando la notte ha ciglia lunghe e bagnate. Mangiare senza sentire il sapore di nulla. Sentire il peso di un corpo che non ti appartiene. Ascoltare qualcosa che solo tu senti. Perdersi in un abbraccio inesistente. Quando cammini e senti un ritmo tra lo stomaco e il cuore, ma lo senti solo tu. Amare e prendere calci in faccia. Logorarsi per qualcosa che non accadrà mai. Quando la tua intelligenza ti permette di capire alcune cose prima di altri. Quando sai tante cose. Hai viaggiato, letto, scritto, danzato, cantato, dipinto, fotografato, ma in fondo sei ancora al punto di partenza. Ancora fermo su quella melodia che batte dal centro dello stomaco e si espande in tutto il corpo. Quando ti manca la terra sotto i piedi. Quando piangi per ore e non puoi dire il perchè, forse perchè non esiste un vero motivo. Quando anche aprire le tende ti costa fatica. Quando senti il dolore che diventa vivo. Lo senti sulla pelle, come un ago. Lo senti con le fitte e gli spasimi. Lo avverti con gemiti e grida, lacrime, sangue e cenere. Se servisse, porterei via il tuo dolore con me. Se potessi me lo cucirei addosso come un'ombra, come un cappotto pesante che indosserei anche in piena estate. Lo porterei via con me, nelle mie mani, nelle mie gambe, a ritmo dei miei passi svelti. Ora sono più fragile. Ora sono la creta che non si ricompatta mai. Ora sono la vernice che gronda dalle mura, ora sono nelle tue mani. Ora puoi fare ogni cosa. Puoi entrare dentro le mie braccia, come se fossi uno spettro invisibile. Come un fantasma ora puoi invadere l'aria che mi circonda. Il mio desiderio ha superato la ragione, ha superato ogni distanza, ogni ostacolo. Ogni attimo viene scandito dal mio orologio interno. Da quel ticchettio che mi ricorda la fine. Dalle lancette impietose che mi segnano, che mi atterriscono, che mi devastano. Parlami ancora. Parlami ora che non sono me stessa, ora che sono vulnerabile, ora che sono incosciente di nuovo. Parlami ora che sono tra la vita e la morte. Parlami come se il mondo dovesse svanire tra un attimo. Parlami ora che sono debole, ora che le forze mi hanno abbandonata per un attimo, ma che sono prossime al mio sangue. Parlami ora che il tempo sta fuggendo dalle nostre mani, ora che nelle nostre menti c'è solo il delirio. Parlami ora! Ora potrei sopportare la perdita e l'abbandono e folle di rabbia potrei gridare ancora. Fra poco non sarò più me stessa. Fra un attimo avrò indosso la mia vecchia armatura di plastica. Dimmelo lentamente. Respira e dimmelo. Parlami del tuo dolore antico come le macerie dopo la guerra. Dimmi delle tue ferite non curate. Dimmi quanto fanno male le nuvole bianche in un cielo limpido. Dimmi quanto ti fà male la pioggia. Dimmelo adesso. Non pensare alle parole. Non pensare a quanto sanno far male. Respira e dimmelo ora. Ti penso. Ti voglio. Ti cancellerò. Fallo ora o non farlo. Ma non farlo in un giorno di pioggia in riva al mare. Fallo quando non ci saranno nè nuvole, nè livore all'orizzonte. Fallo in primavera. Fallo quando il sole annuncerà la calda estate. Dimmelo quando ormai sarai solo una proiezione delle mie paure e dei miei desideri. Spaventami. Parlami ancora. Parlami dei tuoi sogni, di quando ti sei perso dentro di me, di come mi sono smarrita io dentro le tue parole e nei tuoi respiri corti. Dimmelo quando la notte sarà breve e profumata. Quando odorerà di mare e di biscotti caldi. Quando nell'aria ci sarà solo il profumo della nostra giovinezza. Dimmelo quando non avremo più ricordi nè foto. Quando non avremo più pagine da strappare. Dimmelo ora. Qui. In questa notte lunga e bendata. Io non ricordo più cosa fa bene. Non ricordo più la passione. Non ricordo più i giorni del sorriso e della gioia. In fondo anche le mie nuvole sono finte. Non ricordo più... Dimmelo tu cosa fa più male...

lunedì 12 novembre 2012

Imprisoned

La mia pelle ricorda ancora... Sono ritornata in quella casa in un mattino grigio. Quando non ti conoscevo eppure ti sentivo mio. Sapevo che eri nel mio stomaco, nelle mie mani, nelle mie ginocchia. In una casa sconosciuta, ma familiare, in tutte le nostre albe distorte. In tutti quei ricordi ti ho smarrito. In tutto questo dolore e in queste lacrime amare e copiose. Quando ho sentito pezzi di me frantumarsi. Quando ho sentito tutto il rancore depositarsi sul fondo del mio purgatorio interiore. Quando avrei voluto vomitare tutto il mio odio, quando avrei voluto cancellare tutto il mio dolore solo guardandoti. E tutti quei sorrisi? Dove sono adesso? Li abbiamo smarriti in quella strada semi buia. Avevamo un dono, un potere... Avevamo la cura per la nostra infelicità. Quando restavamo svegli nel nostro abbraccio, senza più respiro, senza più gravità nè dignità. Quando ancora eravamo incoscienti e bambini. Quando non c'erano preconcetti. Quando morivamo l'una nell'abbraccio dell'altro. Quando esistevano solo i nostri baci e noi dimentichi di tutto ci perdevamo sull'autostrada della notte. Solitari. Muti. Quando negavamo ogni realtà. Quando sceglievamo le fiamme dell'inferno. Quando non eravamo più due ma uno solo. Quando non c'erano guerre, quando mettevamo da parte noi stessi per un sorriso fugace. Quando ogni cosa era più lieve. Quando galleggiavamo al di sopra di tutto, sospinti dalla musica e dalle nostre giovinezze. Quando siamo rinati da tutte le nostre morti. Quando veniva fuori la tua tenerezza come un uragano devastante. Quando ti ho visto dentro e ho smarrito la strada di me. Quando ho visto i tuoi occhi parlare troppo, senza requie, senza tregua, infelici e lugubri. Quando ti ho riconosciuto tra mille maschere amorfe. Quando gli errori erano soffioni leggeri che sparivano in fretta. Quando i miei piedi toccavano il terreno perchè la strada era diritta, senza alcun ostacolo. Quando le luci del tramonto erano piccoli bagliori lontani. Eravamo così sbagliati eppure così giusti. Eravamo tutto in un nulla sconfinato. Eravamo nella nostra sfera di luce e di buio. Tutti quegli attimi di sospensione dello spazio e del tempo, fuori dalla vita reale. Al di fuori delle nostre lenzuola c'era solo grigiore e nebbia. Fuori c'erano le battaglie combattute da altri, ma noi eravamo su Plutone. Tra i ghiacciai di un amore incerto. Tutti i ricordi mi hanno fatta dimenticare me stessa. Mentre il sole sorgeva io mi rintanavo in quelle lenzuola invisibili. Sotto le coperte dei tuoi sospiri, sotto le tue palpebre serrate. E' arrivato, alla fine, tutto il male, tutto il dolore che temevo. In un giorno di sole, sono morta pur continuando a respirare, pur sentendoti nella pelle, seppur con un cuore a metà, ho continuato a vivere. In tutte le mattine grigie mi sono fermata al di là dei vetri, sotto la volta del dolore più acuto. Ma il dono più grande erano le tue parole che ovunque mi sfioravano l'orecchio. Le tue mani non c'erano, ma sapevo di poterle afferrare nelle notti tetre, meste, infinite... Eri in ogni cosa. Eri e sei sotto la mia pelle. Eri la pelle abbronzata e quella bianca dell'inverno. Eri la mia pelle accaldata. Eri il brivido in piena estate. Eri la pelle delle mani che sfiorava le foglie autunnali cadute sulla panchina di pietra. La pelle che vorrei cambiare, togliere, rivoltare. La pelle di cui vorrei spogliarmi. Vorrei poter guardare sotto, sentire le mie ossa sottili. Vorrei colorarla tutta come una tela. La pelle ha memoria. La pelle ricorda sempre. Se dovessi dimenticarti lei ti ricorderà sempre.

domenica 11 novembre 2012

La mia notte

La notte che ti ha portato via... La notte in cui ho contato i lampioni gialli. La notte disciolta e infinita. La notte scura con la sua trapunta senza stelle. La notte che profuma di asfalto e pioggia. Quando era breve, perchè il sole ci rubava le ore, quando era lieve, quando ci dava ossigeno e tregua. Ora è solo una coltre pesante. Un sudario di pensieri che si rincorrono sotto i bianchi neon. Quando sentivo il tuo peso e i tuoi pensieri. Ogni cosa era dolce. Adesso è solo un triste carnevale. Ora è un ricordo. E i ricordi sono pericolosi, per chi ha ancora sangue, per chi freme e trema nell'attesa di un'alba grigia. Temo la notte eppure l'aspetto come una deliziosa tortura. Fremo e spasimo per le stelle assenti e bugiarde. Aspetto al luna bifronte. Ho abbandonato quella casa, quel tepore, in cambio di una notte inquieta. Di un notte instabile e ondeggiante come i fianchi di una donna. Ti ho visto morire tra le mie mani, come una foglia, come una creatura ultraterrena. Durante la notte traditrice. Quando dormivi nell'incavo della mia spalla, nelle orbite ellittiche che disegnavi sulla mia pelle, nei tuoi silenzi ipnotici, nelle tue menzogne e nei tuoi vuoti. Nei tuoi attimi di sospensione. Nella tua tempesta che cova e minaccia rabbia e dolore antico. Quando potevo sfiorare la tua pelle di straniero. Quando eravamo all'inferno. Dove sono ora le nostre notti? Dove sei? Vorrei attirarti a me con quel filo invisibile che ci lega e ci strazia. Vorrei rivedere i tuoi occhi quando non sapevano di morte. Quando erano limpidi come la mia notte. La mia notte tormentata, fragile, greve, come un diapason. La mia notte illusoria con indosso la sua maschera cieca. E noi, ciechi abbiamo seguito il flusso. Ancora un addio nella notte nemica. Un altro abbandono, un'altra notte di rabbia e lacrime, di cupe emicranie, di gemiti soffocati. La notte lontana. La notte sospesa. La notte delle luci artificiali sul cemento freddo che fugge sotto le ruote, sotto le suole, nelle mie mani, in tutti i respiri. La notte ho paura dei miei pensieri, perchè mi portano in una terra sconsacrata e sconosciuta, dove tutto è appassito. La notte combatto con i miei demoni. La notte sono inferma. La notte resto immobile nel mio busto dipinto, scolpito per il mio corpo e per la mia mente malata. E attendo. Attendo te, nella notte senza fine. Suoi tuoi tasti bianchi e neri. Sulla spiaggia desolata. Sulla riva attraversata dalle onde impietose. Attendo che l'alba porti via il mio male. Attendo tutte le notti. Nell'alone giallo di un lampione solitario. Nel cerchio di quella luce finta. Nella nebbia, nel vuoto permeabile. In questa notte meccanica, distorta altalena del giorno. Ingranaggio guasto. Nel buio che mi artiglia le braccia come un tentacolo, come un ago... Nel nero vuoto cerco le mani gloriose che mi salveranno. Non respiro la notte. Non vedo la notte.

giovedì 8 novembre 2012

Scacco al re

Uno specchio appoggiato alla parete. Nero e coperto di polvere. Quella che si era accumulata negli ultimi 100 anni. Uno squarcio nella parete come una ferita ancora aperta. Le membra attaccate dalla cancrena come un branco di lupi affamati e ululanti. La pelle era diventata carne marcia, ammuffita dalla morte. Allungai la mano attraverso la ferita del muro, verso un'altra dimensione. La ruggine e la calce m'impedivano il passaggio. Le aste d'acciaio che sbucavano dal muro erano taglienti e lucide. Il suono di un pianoforte dall'altra parte. Ero avvolta nel tuo liquido amniotico. Abbandonata, con la mente annebbiata. Ancora sangue. Il sangue tingeva i miei sogni tutte le notti. Volti e mani ricoperti di sangue vecchio e rappreso. Gli ultimi 100 anni erano passati in un attimo, durante il tuo sonno infantile. Sui tuoi occhi serrati, fuliggine e cenere. Sulla tua sepoltura, fiori appassiti e secchi. Il legno era marcito, umido e ridotto in brandelli. I violini erano stati riposti nelle loro custodie, addormentati in quel letargo forzato. Mi spingevo attraverso il muro, cercavo di forzare il mio corpo, come se non avessi consistenza, come se non avessi ossa. Attraversai la penombra della camera da letto, come un morto che cammina tra le tombe silenziose. Fuochi fatui e odore di decomposizione sulle lapidi. Quello era il luogo dei nostri recenti trapassi. E tutto era avvenuto senza una degna sepoltura. I vermi avevano già iniziato la loro opera di smantellamento epidermico. Quello era il mio patibolo. Il letto: assi di legno e corda sciolta. La mia ingenuità mi perseguitava ancora adesso. Cercavo un'altra volta il tuo ordine, il tuo volere di carnefice. Ma questa volta mi sarei distesa nella bara con un sorriso storto. In quel chiaro-scuro soffocante, vidi solo le tue spalle curve e i tuoi occhi non c'erano più. Orbite cave e buie. Eri lì, seduto sul letto, davanti ad una scacchiera d'argento. La tua mente era altrove e tu eri intento a studiare tutte le possibili mosse. Un altro scacco matto al mio cuore? I vermi si agitavano sulla coltre e sulle tende fluttuanti. Ogni cosa era assopita e abbandonata, da quando tu avevi fermato le lancette del tempo. L'aria era stagnante e rarefatta, la mia gola serrata e arida quanto il deserto. I fuochi fatui danzavano davanti al tuo volto di pietra. Non eri più la mia statua greca, ma il mostro a guardia del mio santuario. Un mostro senza più occhi nè cuore. Una belva feroce che non risparmia nessuno. Eri la mia pace e sei diventato il mio tormento, la mia dannazione, la mia ossessione. Ero pronta per giocare ancora una volta? Hai annusato la mia presenza. "Siediti!" hai ringhiato. Ho provato a resistere, ma ho avuto pena dei tuoi occhi vuoti. Hai tenuto per te tutti i pezzi neri. Io ero la regina d'avorio circondata da un esercito di codardi. Attendevi la mia mossa fallace. Sapevi che avrei sbagliato e forse lo sapevo anch'io. Ho provato a giocare, pur non conoscendo le tue regole, senza alcuna speranza, ho scelto liberamente il massacro. SCACCO MATTO! Le tende sono cadute e i vermi dileguati. Con il dorso della mano hai distrutto il mio misero re e hai fatto a pezzi la scacchiera. I pezzi rotolavano sul pavimento in un vortice bianco e nero, mentre noi ci fissavamo come due guerrieri sfiniti. "Inginocchiati!" hai sibilato come un rettile. Avrei voluto gridare, piangere, dentro mi dibattevo come un uccellino in fin di vita. Ma le mie ginocchia risposero al tuo comando di morte, come se avessero avuto vita propria. Tutto il mio corpo prendeva linfa dalla tua voce. "Abbassa il capo. Non hai il diritto di guardarmi. Sono il mostro che si ciberà della tua anima, che si nutrirà del tuo cuore puro". Da quella posizione potevo vedere solo i tuoi piedi immobili. Hai compiuto un mezzo giro attorno a me. Eri dietro di me. Il silenzio era assordante e l'attesa della mia condanna mi faceva tremare. Vidi un riflesso. Una lama di luce che si agitava sulla parete bianca. Un tremolio continuo. Cercai di fermare la mia mente ballerina. Non poteva essere un fuoco fatuo, perchè non vi era nessuna forma di vita in quella stanza. Non sentivo nulla provenire da te. Neanche il più piccolo respiro. Era la tua scure. E tu, il mio boia, eri già morto! Con chi avevo combattuto? Avevo battuto l'altra me. Avevo distrutto la mia parte malsana. Tu non eri più lì. Avevi vinto la tua battaglia. A me non restava altro che il silenzio.

lunedì 5 novembre 2012

Giungla nord

Aveva uno sguardo limpido. Semplice e diretto. A volte un pò imbarazzato, ma tutto sommato "da bravo ragazzo". Un velo di tristezza spesso offuscava quell'azzurro chiaro e rendeva tutto un pò più grigio. Era come il mare. Calmo e placido con orizzonti soleggiati che all'improvviso venivano minacciati dalla tempesta. Una tempesta che covava e che spesso reprimeva. Reprimeva la sua tempesta interna, mangiandosi le unghie. O rigirandosi l'orlo della felpa tra le dita, come fosse un modo per non guardare indietro, al suo passato burrascoso. Era sempre lì, seduto su quella ringhiera del lungomare. Una ringhiera che un tempo doveva essere stata dipinta di verde, ma che ora, la salsedine aveva consumato e rosicchiato. Andava lì con il suo cane. Ascoltava la musica. Prediligeva quella classica, soprattutto nei giorni di pioggia, quando il vento spostava le onde fin sotto gli scogli davanti alla piccola baia. Sedeva lì per ore a guardare il mare. Un mare che conosceva bene e che in fondo era la sola cosa che lo facesse sentire davvero a casa sua. Era alto e aveva spalle larghe e possenti. I capelli biondi, corti, tagliati talmente corti che s'intravedeva lo svolazzo di un tatuaggio uscire dal collo della felpa per insinuarsi fin sotto l'orecchio destro. Ne aveva molti di tatuaggi, ognuno gli ricordava un luogo in cui aveva vissuto, o un'esperienza particolare, una donna, una passione, sua madre, il mare e la morte. Tutto ciò che aveva attraversato la sua vita aveva deciso di ricordarlo per sempre. Per sempre con disegni indelebili e colorati, incisi sulla pelle ambrata. Seduto in quella posizione quasi innaturale e scomoda fissava l'orizzonte, sognando di poter andare via presto e di non tornare mai più. Poi un giorno la vide. Passeggiava sul lungomare, con la testa bassa, le cuffie e le mani dentro le tasche della giacca di pelle. Sembrava un folletto. Il suo passo svelto e deciso, il suo sguardo basso, fisso sulle scarpe colorate. Aveva calze e scarpe rosse. Sembrava uscita da un fumetto. "Non ho mai visto scarpe così colorate" pensò lui. Quella ragazza lo attirava come una calamita. Lo incuriosiva e al tempo stesso gli trasmetteva calma. Una calma che irradiava dal suo passo deciso, ma non isterico. Camminava guardando a terra e rigirava il filo delle cuffie tra le dita della mano destra, portava un cappellino da baseball calcato sui grandi occhiali da sole, colorati anch'essi. Un ciuffo di capelli rosso fuoco spuntava irriverente dal berretto, che lei, con la mano sinistra tentava di ricacciare dentro con malcelata insistenza. Tutto ciò che indossava era molto variopinto, ma il suo sguardo, che s'intravedeva dalle lenti era malinconico, come se in lei ci fosse una tristezza insita. Ormai la vedeva passare di lì tutti i giorni. Per lui era diventato un appuntamento fisso, ma lei sistematicamente sembrava non accorgersi della sua presenza...