martedì 19 marzo 2013

Your hands are cold

Ero sul bordo delle cose, per paura di caderci dentro e non ritrovarmi più. Ero quasi sempre in bilico, senza equilibrio cercavo di camminare sul filo della tua assenza. La tua assenza era una presenza fortissima che non mi permetteva di muovere un passo dietro l'altro. Su quella corda tesa, mi ritrovavo a guardarti. Guardavo te e non la tua assenza. Le tue dita sottili che giocherellavano spesso con le ciocche disordinate dei tuoi capelli. Non tentavi neanche di riordinarli, ti limitavi a tirarle verso il basso, una per una, quasi volessi allungarle come elastici neri. Poi stanco di questo gioco solitario, passavi entrambe le mani sul viso, come a volerti togliere una scomoda maschera. E allora le dita s'infilavano morbide nei capelli, scomparendo completamente alla mia vista. Restavi così. Con il capo reclinato indietro, gli occhi chiusi e la gola bianca offerta e indifesa. Ancorata alla mia fune, ero lì e quella visione mi abbatteva completamente. E per un lunghissimo attimo dimenticavo la mia posizione di scarso equilibrio e affondavo nell'estasi di quella illusione. Stare sul bordo ed osservare era per me un porto sicuro, era la mia salvezza da occhi come i tuoi, era il mio paracadute da mani come le tue. Poi ho smesso di osservare soltanto e ho permesso alle tue mani di affondare nel mio petto. Ho permesso alle tue parole di creare echi infiniti nella mia mente, ai tuoi silenzi di plasmare ombre attorno a me. E quelle ombre concepivano sempre nuove forme. Mai riconoscibili, mai familiari. Ogni volta mi avvolgevano e si allungavano sempre di più, come se ci fosse il sole di un tardo pomeriggio estivo a giocare con loro a nascondino. Cercavo di afferrarle o restavo ostinatamente a guardarle. Ma non accadeva mai che giocassero con me. Stanca allora di un gioco di cui non conoscevo le regole, me ne ritornavo sul mio filo, ma avevo perso un altro grammo di equilibrio. La mia anima non aveva più scarpette leggere, erano diventate di piombo e affondavo sempre di più nel tormento della tua assenza. Assenza. Assenza di equilibrio. Assenza dei tuoi occhi. Assenza del tuo profumo e dei tuoi gesti. La tua assenza nelle mie braccia, sulla pelle e sul viso. Quella lontananza che mi piegava le ginocchia, prepotente e distruttrice quanto la tua presenza. Mi pugnalavi sul fianco e poi mi curavi come un medico sapiente. Mi graffiavi e leccavi le mie ferite, eri la piaga fantasma che non guarisce mai. Ma tutte le volte tentavi di colpirmi e affondavi sempre più a fondo la tua lama, per poi stringermi nel tuo abbraccio. E in quell'abbraccio tu mi parlavi, ma non sentivo. Non ascoltavo che la vibrazione delle mie gambe e la tua stretta che mi faceva pulsare le tempie. Sentivo le braccia come morte. Eri entrato come un uragano silenzioso nel mio ordine chiuso. Un ordine che avevo costruito fin nelle pieghe più sottili dell'atmosfera. A volte era un ordine impercettibile, ma era per me la minuziosa imitazione di un equilibrio. Finchè un giorno non hai sovvertito questo piccolo mondo, scuotendomi con i tuoi sguardi disseminati di silenzio. E calmo, hai distrutto la diga, scaraventandomi in quel vortice di dubbi, di domande senza risposte. Le risposte che non avevi. E restavi lì, lasciando che ti ritraessi con i miei occhi di metallo. Fermo e incuriosito, nutrivi la mia fame di te. Per colpirmi più forte, sei caduto sulle ginocchia doloranti, hai tolto gli orpelli dal petto e dalle spalle. Spaventata, ho continuato a ritrarre il tuo maledetto viso disperato. Sottraevo altri grammi al mio misero equilibrio, dalla mia carne, dalla mia volontà. Ora potevo avvicinare la mia mano ai tuoi capelli... Allora di colpo sembrava che tutte le corde degli archi si fossero rotte nel medesimo istante. Come una staffilata nel momento più silenzioso di una sinfonia. Allora continuavo a tacere. Allora continuavo a prendermi i tuoi occhi, mentre tu mi avvelenavi un pò di più. E le mie mani erano fredde. E ritornavo sul bordo a guardarti giocare con i capelli. Ora ne riconoscevo il profumo e la loro assenza.

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